Sono arrivate fresche fresche, anzi gelate, le ultime statistiche dall’Europa e dall’Italia sull’andamento della disoccupazione, con dati che quasi coincidono. Cominciamo dall’Europa e dal suo Ufficio statistico Eurostat che ha registrato a dicembre 2009, per la zona euro, un tasso di disoccupazione del 10%, con 23 milioni di persone prive di lavoro nei 27 Paesi dell’UE. Come sempre avviene con le medie statistiche, c’è chi se la cava meglio e chi sta peggio: resistono attorno alla barra del 5% i Paesi Bassi (4%) e l’Austria (5,4%), precipitano attorno al 20% Lettonia (22,8%) e Spagna (19,5%). Ma tutti i Paesi dell’UE hanno registrato un aumento della disoccupazione nel corso del 2009: meno di un punto percentuale Germania, Lussemburgo e Belgio, dieci volte tanto i tre Paesi baltici. Complessivamente il tasso medio di disoccupazione è passato in un anno dall’8,2% del dicembre 2008 al 10% del dicembre 2009 nell’UE e dal 7,6% al 9,6% nell’area dell’euro, raggiungendo i livelli più elevati dal gennaio 2000 per l’UE e addirittura dall’agosto 1998 per la zona euro.
Completa il quadro l’aumento più contenuto della disoccupazione delle donne (passata in un anno dall’8,7% al 10,1% nella zona euro e dal 7,9% al 9,3% nell’UE-27), maggiormente presenti nei servizi, rispetto agli uomini, colpiti dalla crisi dell’industria manifatturiera e il dato – di tutti il più inquietante – della disoccupazione giovanile (sotto i 25 anni) che è precipitata sotto la barra del 20%, con il 21% nella zona euro, il 21,4% nei 27 Paesi UE e una punta del 44,5% in Spagna.
In questo quadro desolante, l’Italia galleggia più o meno nella zona centrale (14° su 27), ma con due aspetti che vanno segnalati. Il primo riguarda la disoccupazione giovanile, dove nella classifica degli esclusi balziamo nei primi posti con un tasso del 26,2% e un aumento di 3 punti percentuali rispetto al 2008.
L’altra considerazione riguarda le modalità di calcolo della disoccupazione, di cui si è avuto recentemente eco nella diversa lettura della situazione occupazionale data dal governo italiano rispetto alla Banca d’Italia. Il ministro Sacconi, preoccupato di difendere l’operato del governo – in particolare in questa vigilia elettorale – conta i disoccupati non includendovi quanti sono in cassa integrazione, così da poter dire che l’Italia sta sotto la media europea. Più realisticamente – e onestamente – la Banca d’Italia guarda a quanti se ne stanno a casa senza lavoro e conclude che siamo leggermente al di sopra della media europea: non all’8,5% dei dati governativi ma al 10,1%. Una differenza non da poco, soprattutto quando si tratta di oltre due milioni di disoccupati (2.138.000 per l’esattezza), cresciuti del 22,4% negli ultimi dodici mesi.
Comunque la si calcoli, una situazione drammatica per un numero crescente – e che continuerà a crescere – di persone private del lavoro, con un ricorso alla cassa integrazione devastante anche per i conti pubblici già in pessima salute: negli ultimi 15 mesi sono state autorizzate oltre un miliardo di ore di cassa integrazione, con una caduta media di reddito per ciascun cassintegrato valutata attorno a 3000/3500 euro ogni sei mesi, con le relative ricadute sui consumi e sulla stentata ripresa economica da un pezzo annunciata ma non ancora all’appuntamento.
Molte le riflessioni indotte dalla crudeltà dei numeri ricordati. La prima, che dietro ognuno di quei numeri vi è una persona in carne ed ossa, famiglie con bambini, cinquantenni espulsi dal mercato del lavoro dove difficilmente rientreranno, giovani in attesa di un’attività che dia loro dignità ed autonomia, altrochà© soltanto «bamboccioni» da cacciare di casa.
Ma un’altra considerazione merita l’attuale situazione occupazionale: con l’occupazione che non cessa di cadere, continua a scadere la qualità del lavoro.
Scade nelle condizioni di sicurezza, con un’incidentalità che resta alta e in parte occultata; scade nelle condizioni di legalità , con un tasso sempre altissimo nel nostro Paese di lavoro in nero; scade nell’iniquità della distribuzione del ridotto lavoro disponibile, con gli straordinari che crescono in presenza della disoccupazione e con tanti saluti alla troppo declamata responsabilità sociale dell’impresa.
E scade il lavoro anche per l’alto numero dei «contratti a scadenza» che tengono con il fiato sospeso un’intera generazione di giovani che vanno di lavoro precario in lavoro provvisorio, privati di una prospettiva su cui costruire il loro progetto di vita.
A questa generazione, già carica di debiti procuratile dalle generazioni precedenti che si sono generosamente servite del danaro pubblico finchà© ce n’era, stiamo rubando il futuro con una politica incapace di indicare un orizzonte e offrire certezze, ma soltanto parole sempre meno ascoltate.
Con in più la faccia tosta di stupirci e scandalizzarci se poi i giovani sono disaffezionati da questa politica e, quando possono, se ne vanno via da questo Paese che non li merita.