Nel contesto della tragedia della guerra a Gaza, si è consumato la settimana scorsa il primo confronto diretto fra Israele e Iran, un confronto fino ad ora mantenuto sottotono, fra taciute rivendicazioni, reciproche minacce di gravi ritorsioni e necessità di salvare onore e credibilità. Un confronto, tuttavia, carico di conseguenze politiche per il futuro dell’intera regione.
I fatti più recenti che hanno portato ad innescare questo pericoloso scontro ad alto rischio di escalation, risalgono al primo aprile 2024 quando Israele colpisce a Damasco un edificio del consolato iraniano, uccidendo diversi Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione). Teheran prende tempo e studia la vendetta per la notte tra il 12 e il 13 aprile, con massicci lanci di droni e missili, senza tuttavia causare particolari danni grazie ai sistemi di difesa israeliani.
La risposta di Israele non si fa attendere e, malgrado le dichiarazioni di una “risposta significativa e imminente”, il 19 aprile Tel Aviv lancia un’operazione di risposta limitata e misurata, senza rivendicare ufficialmente l’attacco e senza causare particolari danni. Un modo, da una parte, di difendere la sua credibilità e dall’altra di evitare a Teheran di dover rispondere di nuovo, con il pericolo di innescare una spirale e una escalation verso una guerra regionale dalle conseguenze imprevedibili. La domanda, per il momento, è infatti quella di sapere se l’escalation è stata evitata e se il confronto si fermerà qui, sull’orlo del baratro.
La Repubblica Islamica, per la prima volta nella sua storia, ha risposto direttamente a Israele, venendo meno ad una strategia adottata da decenni, consistente in una sorta di guerra-ombra combattuta attraverso altri attori, suoi partners regionali, quali, in particolare l’Hezbollah, oggi più che mai impegnato in un acceso confronto militare con Israele nel sud del Libano. Senza dimenticare l’insieme di quello che viene definito “l’asse della resistenza”, composto in particolare da milizie sciite che vanno dal Libano, alla Siria, all’Iraq e allo Yemen con gli Houthi.
Dal canto suo Israele, negli ultimi anni, ha effettuato numerosi attacchi contro obiettivi iraniani in Siria, ma l’attacco del primo aprile scorso a Damasco e la risposta iraniana, nel contesto dell’intensità della guerra a Gaza, assumono un significato particolare, non foss’altro per l’ormai concreta capacità della Repubblica islamica di dotarsi dell’arma nucleare.
Una prospettiva che ha messo in massima allerta la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, i quali, malgrado le divergenze e le freddezze diplomatiche che si stavano manifestando nei confronti di Israele sulla conduzione della guerra a Gaza, si sono immediatamente rischierati a fianco di Tel Aviv per far fronte all’Iran, riaccendendo quella solidarietà che sembrava leggermente titubante. Una solidarietà ritrovata anche con l’Unione Europea e con altri Paesi europei, Francia e Gran Bretagna in particolare, ma anche con Paesi arabi come Giordania e Arabia Saudita, tutti uniti contro l’Iran in una improvvisa coalizione militare a sostegno di Israele.
Un rimescolamento delle carte geopolitiche in una partita che l’insieme del Medio Oriente stava giocando prima della guerra a Gaza, a partire dagli accordi di Abramo fino al timido riavvicinamento in corso fra Arabia Saudita e Iran. Se da una parte questo risultato può essere considerato un punto politico a favore di Israele, dall’altra solleva nuove inquietudini e punti interrogativi sul futuro dell’intera regione: per primo, mette (momentaneamente?) in ombra il conflitto a Gaza nonché quello che sta succedendo in Cisgiordania, dove i coloni israeliani, nella più totale impunità, continuano le loro violenze e attacchi nei confronti dei palestinesi. Inoltre, senza prospettive di soluzione del conflitto o di un cessate il fuoco, gli Stati Uniti si sono opposti al Consiglio di sicurezza dell’ONU al riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite, relegandola allo statuto di Paese osservatore permanente non membro. Una mossa in netta contraddizione con la prospettiva finora sostenuta di “Due popoli, due Stati”, prospettiva che sembra ormai abbandonata nell’angolo dell’utopia e senza che la diplomazia dia segnali nuovi e adeguati alla costruzione della pace.