C’è ancora un giudice in Europa

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Singolare coincidenza quella che, nello stesso giorno, ha visto a Roma l’intervento della Corte costituzionale italiana in favore di referendum sulla giustizia e, a Lussemburgo, quello della Corte europea di giustizia in difesa della democrazia e dello Stato di diritto in Polonia ed Ungheria.

Il rumore di fondo che impedisce alla politica italiana di guardare con più attenzione a quanto accade in Europa, nonostante le tensioni alle sue frontiere generino allarme, ha rischiato di occultare  un messaggio importante per l’Unione Europea, incoraggiandola ad agire con maggiore determinazione nella difesa dei valori sui quali è stato costruito il progetto di integrazione europea.

Si tratta di una vicenda che si trascina da tempo, nel caso della Polonia dal 2016 poi allargatasi all’Ungheria, e che ha visto questi due Paesi allontanarsi progressivamente dalle regole di democrazia, sottoscritte quando nel 2004 entrarono a fare parte dell’Unione. 

Quasi vent’anni di vita comune da cui Polonia e Ungheria hanno ottenuto dalla solidarietà e dal bilancio europeo un forte sostegno al loro sviluppo, purtroppo ad oggi non ricambiato con il rispetto degli impegni presi al momento della loro adesione all’UE. 

Sul banco dei due imputati crescenti gravi infrazioni allo Stato di diritto, come nel caso dei limiti imposti all’indipendenza della magistratura e alla libertà di espressione, che hanno spinto il Parlamento europeo a invocare sanzioni, ottenendo una sofferta apertura in questo senso dal Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo che ne ha affidato l’esecuzione alla Commissione europea. 

Ma qui le cose si sono complicate,come spesso avviene nel contorto assetto istituzionale europeo, dove non sempre sono rispettati – come sarebbe normale in una democrazia – gli equilibri tra i diversi poteri e, anche, la parità tra i Paesi dell’UE. Tra questi ultimi un ruolo importante l’ha avuto la Germania di Angela Merkel, molto cauta a contrastare i comportamenti di Polonia e Ungheria per non danneggiare i propri interessi economici e commerciali.

Si è dovuto attendere, a fine del 2020, l’approvazione del bilancio UE 2021-2027 per mettere sul tavolo il problema e vincolare la fruizione delle risorse europee al rispetto delle regole della democrazia, come richiesto dal Parlamento europeo giunto a minacciare di portare la Commissione europea davanti alla Corte di giustizia se non mandava in esecuzione le sanzioni previste. 

C’è voluto del tempo, ma finalmente una parola chiara è stata pronunciata dalla Corte europea di giustizia che autorizza la Commissione a chiudere i rubinetti dei finanziamenti europei ai Paesi membri che non rispettano gli impegni presi: una misura particolarmente pesante nel momento in cui sono disponibili le importanti risorse finanziarie del “Piano europeo di ripresa” (Recovery fund) e quelle del bilancio UE 2021-2027.

Anche nell’Unione accade che la giustizia – quella della Corte europea in Lussemburgo – debba farsi carico delle inadempienze e dei ritardi della politica, quali quelli manifestatisi come da tradizione all’interno del Consiglio e anche, forse anche più grave, da parte della Commissione europea, troppo sensibile agli interessi della Germania.

La coincidenza casuale dei due pronunciamenti simultanei delle due Corti italiana ed europea è un messaggio anche per l’Italia che fatica ad onorare gli impegni presi con l’UE di accompagnare l’esecuzione del “Piano nazionale di ripresa e di resilienza” (PNRR) con la realizzazione di importanti riforme per rafforzare la democrazia, come quella della giustizia. 

Anche perché potrebbe toccare ad altri Paesi UE finire sul banco degli imputati. 

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