2009: bilancio di un anno difficile

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Il 2009 aveva preso avvio in una congiuntura di crisi, maturata nell’estate scorsa e poi esplosa già   negli ultimi mesi del 2008. Una crisi iniziata con una turbolenza finanziaria senza precedenti, trasformatasi rapidamente in una pesante recessione economica, provocando poi una crisi occupazionale e sociale tuttora in corso e della quale non si vede ad oggi la fine.
Queste successive ondate di crisi si sono diffuse rapidamente travolgendo il mondo intero, Europa e Italia comprese. Nà© poteva essere altrimenti nel mondo della competizione globale e in quello di una finanza fuori controllo, con poche regole e ancor meno responsabilità   etica.
Così anche l’Europa, non la prima colpevole anche se non del tutto innocente, è finita nella turbolenza reagendo con poca coesione e troppe concessioni protezioniste che hanno messo a dura prova il funzionamento del mercato interno.
I primi argini di protezione sono stati a favore degli istituti bancari, poi di alcune tra le industrie più minacciate, a cominciare da quella automobilistica.
I costi finanziari sono stati enormi: ne sono prova l’aumento del deficit in molti Paesi (nell’UE, Regno Unito e Irlanda in testa) e l’aggravamento del debito pubblico (qui il duello è tra la Grecia, sull’orlo della bancarotta, e l’Italia avviata ad un pesante 115% sul PIL quando la soglia di riferimento per l’UE è il 60%).
Purtroppo questo salasso delle finanze pubbliche non ha impedito alla disoccupazione europea di viaggiare verso il 10%, senza che nel frattempo si sia finora riusciti a fare ripartire l’economia. Qualche primo e fragile segnale di ripresa dovrebbe manifestarsi nel corso del 2010, anno perಠche continuerà   a registrare un aggravamento della crisi sociale.
E tuttavia il bilancio avrebbe potuto essere anche più negativo senza l’argine dell’euro (ne prendano nota gli scriteriati che continuano ad imputargli tutti i nostri mali) e la relativa solidità   del sistema bancario europeo, tenuto costantemente sotto controllo dalla Banca Centrale Europea che ha manovrato con saggezza sui tassi di interesse mantenuti ai livelli storicamente più bassi.
Ma qui finiscono le poche buone notizie sul ruolo dell’UE nel contrasto della crisi: poca Europa si è fatta sentire nel «governo» mondiale della crisi, come hanno testimoniato il G8 de L’Aquila e il G27 di Pittsburg. Il primo si è rivelato una discutibile messinscena tra le macerie di una regione rapidamente dimenticata, il secondo ha registrato qualche progresso sulla lunga strada verso un «governo» mondiale della finanza e dell’economia ma con scarso ruolo dell’UE in quanto tale, a testimonianza di una perdita di influenza nel mondo che si va via via aggravando.

Nel mondo non si spengono i focolai di guerra
La crisi economica ha soffocato molte attività   ma non i conflitti bellici, anzi.
Oltre a quelli ormai endemici in Africa e perlopiù dimenticati, restano vivi i conflitti nell’area mediorientale e altri rischiano di prepararsi. La Palestina continua a pagare pesanti contributi di umiliazione e di marginalità   economica: le recenti elezioni in Israele non hanno certo mandato messaggi di distensione nà© è portatrice di pace la persistente occupazione dei territori palestinesi e l’ostilità   del «muro» eretto dagli israeliani. Il «percorso di pace» (Road map) disegnato dai Grandi non ha fatto progressi: non si avverte ancora la svolta attesa da Obama nà© l’Europa ha fatto molto di più, al punto che il ministro degli Esteri UE, Alston, si è interrogata su quanto Blair – responsabile di quel percorso – si sia guadagnato i soldi della missione affidatagli.
In Iraq le politiche di pacificazione sono ancora lontane dai risultati attesi nonostante la decisione di Obama di portare a casa i suoi soldati, mentre in Iran continua a salire la tensione sotto la minaccia di una pericolosa proliferazione nucleare di cui quell’area – dove già   Israele possiede l’arma atomica – non ha davvero bisogno.
Ma anche più allarmante si profila l’evoluzione del conflitto in Afghanistan dove cresce l’impegno militare della NATO – e dell’Italia – e dove il teatro di guerra sembra spostarsi sempre più verso il Pakistan, che detiene nell’area, con l’India, l’arma nucleare.
Sulla direzione delle operazioni pesa il predominio USA che impegnano nel conflitto il maggior numero di militari; i Paesi europei, che pure sono presenti con forze importanti come nel caso dell’Italia, non possono che allinearsi agli orientamenti americani come è avvenuto in occasione della recente decisione di Obama di rafforzare la presenza militare senza che si intravedesse chiaramente una nuova strategia politica per mettere fine al conflitto.
Si tratta di una subordinazione che ha origini lontane, quando la Comunità   a sei, nel 1954, non riuscì a condividere una politica della difesa comune: da allora ciascun Paese si muove separatamente impedendo all’UE di svolgere un ruolo più efficace di coordinamento. In un mondo ad alto tasso di instabilità  , questa lacuna consegna alla UE del futuro un problema da risolvere prima che sia troppo tardi.

Con il Trattato di Lisbona un’Europa più forte?
Con il 2010 si affaccia la speranza che l’UE, rinnovata nei suoi vertici istituzionali e sorretta dal nuovo Trattato di Lisbona, possa finalmente affrontare meglio attrezzata le sfide che l’attendono, dall’irrisolta crisi economica e sociale alle minacce che pesano sulla pace nel mondo e sulla vita futura del nostro pianeta.
Il 2009 infatti ha finalmente visto l’approdo ad un nuovo Trattato di cui da anni si sentiva il bisogno, dopo l’infelice Trattato di Nizza del 2000 e la bocciatura del progetto di Costituzione europea nel 2005. Il risultato, da non sottovalutare, è stato raggiunto in un anno difficile per la crisi che ha colpito anche l’Europa: proprio questa congiuntura ha contribuito a convincere l’Irlanda a ratificare finalmente il Trattato nell’anno del rinnovo del Parlamento Europeo con elezioni segnate da un alto tasso di astensionismo e dall’arrivo a Strasburgo di inquietanti presenze nazionaliste ed euroscettiche.
Nonostante queste congiunture negative il processo di integrazione non si è arrestato. Nel 2009 hanno preso il timone dell’UE un nuovo presidente del Parlamento Europeo, un riconfermato presidente della Commissione Europea e sono state designate due figure istituzionali nuove, nelle persone del belga Van Rompuy come presidente stabile del Consiglio Europeo e dell’inglese Alston come ministro degli Esteri. Due scelte, queste ultime, molto criticate per il profilo modesto scelto, in particolare sul versante delicato della ancora inesistente politica estera europea.
Molti osservatori hanno visto in queste decisioni una conferma della deriva europea verso un aggravamento della sua irrilevanza nella conduzione degli affari del mondo, una ulteriore perdita di quella posizione baricentrica che l’Europa aveva ancora fino a qualche decennio fa.
A rafforzare questo giudizio negativo, se fosse stato necessario, è giunto lo spettacolo penoso del Vertice ONU sul clima, dove l’Europa muovendo in ordine sparso nulla ha potuto contro i due giganti, USA e Cina, anch’essi incapaci di trovare un accordo vincolante.

Poca Italia nel mondo e in Europa
Non stupisce che in uno scenario mondiale come quello descritto, l’Italia non abbia lasciato tracce di qualche rilievo. Accade e continuerà   ad accadere nella gestione di conflitti come quello afghano, dove all’Italia non resta che accodarsi al potente alleato USA, o nel conflitto mediorientale dove pure ci si potrebbe aspettare un ruolo maggiore per un Paese che si affaccia non senza rischi sul Mediterraneo.
Certo sarebbe più decente se almeno non si ostentassero ruoli che non si è in grado di assumere, come è avvenuto senza pudore con il G8 de L’Aquila o come avviene con le disinvolte visite all’«amico Putin» per favorire progetti energetici non condivisi con l’Unione Europea.
Ma è proprio qui, nell’Unione Europea di cui siamo fondatori, che l’Italia potrebbe ritagliarsi un ruolo dignitoso anche se non decisivo. Purtroppo le cose stanno andando diversamente, a cominciare dalle nostre assenze ai vertici delle istituzioni comunitarie. Dopo aver perso la presidenza del Parlamento Europeo in favore di un polacco, siamo anche riusciti nella brillante operazione di perdere il posto di ministro degli Esteri a favore di una baronessa inglese senza particolari doti per quella funzione ed è molto improbabile che nel 2011 potremo ambire alla presidenza della Banca Centrale Europea. Per non parlare della nostra ininfluenza nelle istituzioni mondiali, dall’ONU al Fondo Monetario Internazionale, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio alla Banca Mondiale.
Raccogliamo quello che abbiamo seminato, e non solo in questi ultimi anni: una cultura provinciale senza visione del futuro, con un alto tasso di inaffidabilità   unite ad una politica interna litigiosa e incapace di fare le riforme che si impongono, ma sempre pronta a lasciare «andare l’acqua verso il basso», come testimoniano le vicende delle nostre finanze pubbliche e la poca cura della legalità  .
E così chi ci conosce ci evita e le nuove generazioni da noi ereditano non solo pesanti debiti, ma anche una pericolosa disaffezione per la politica che ci porterà   tutti a perdere terreno rispetto non solo a questo mondo che corre ma persino rispetto a questa nostra Europa tartaruga, lasciata ai margini di una storia di cui per secoli fu protagonista.

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