Medio Oriente: le guerre oltre la Siria

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Mentre si avviano con coraggio alcune iniziative di cittadini volte a non dimenticare l’orrore delle tante guerre che si incrociano in Medio oriente, come il sit in a Roma il 2 settembre o la marcia per la pace Perugia–Assisi prevista per il prossimo 8 ottobre, vale la pena ricordare qui anche quei conflitti che si consumano nell’ombra ma i cui effetti sono sempre quelli del dolore, delle tragedie e delle distruzioni.

Se giustamente le iniziative di quei cittadini chiedono, da una parte, una tregua e l’apertura di corridoi umanitari per Aleppo, nonché attenzione su quello che sta succedendo nei confronti dei curdi, dall’altra invocano maggiore informazione, sensibilizzazione e iniziative culturali sui grandi drammi in corso.

Oltre la Siria infatti, si sta consumando, in modo meno visibile, un conflitto altrettanto sanguinoso nello Yemen. E’ uno dei Paesi arabi più poveri, ma ricco di una storia millenaria e di un patrimonio architettonico di grande valore, oggi in grave pericolo. Un Paese di 26 milioni di abitanti di cui 21 milioni, a causa della guerra, si ritrovano in situazioni di grave insicurezza alimentare ; solo negli ultimi 18 mesi sono state 10.000 le vittime, fra cui tanti bambini e più di 170.000 gli sfollati. Probabilmente troppo lontani o troppo poveri per intraprendere la difficile strada dei migranti verso l’Europa, i profughi si rifugiano essenzialmente in Paesi altrettanto insicuri come l’ Etiopia, la Somalia, il Sudan o Gibuti.

Le ragioni di questa guerra hanno radici lontane, ma è soprattutto a partire dalla timida e breve “primavera araba” che il conflitto si è gradualmente tramutato in una vera e propria guerra civile, con la destituzione , nel 2012 del dittatore Ali Abdullah Saleh, e l’elezione al suo posto di Abdel Rabbo Monsur Hadi, attuale Presidente sunnita. La transizione, sostenuta da attori esterni, in particolare dall’Arabia saudita, ma anche dall’Occidente, è stata molto problematica: nel vuoto politico che si era venuto a creare ha trovato terreno fertile il sedicente Stato islamico e Al Qaida, mentre gli Houthi, minoranza sciita del Paese (circa il 40% della popolazione), ha riacceso il conflitto interno e acquisito sempre più potere militare, fino ad occupare, nel 2014 parte del Paese e, in particolare, la capitale Sanaa. Ed è proprio per fermare l’avanzata degli Houthi verso il Sud del Paese che nel marzo del 2015, l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione di Paesi arabi e con armi fornite anche dall’Italia, diede inizio alla sua guerra nello Yemen contro i ribelli Houthi.

Anche in questo Paese il conflitto, sebbene considerato una guerra civile, si snoda intorno a vari interessi regionali. Se si guarda con attenzione una cartina della regione, ci si accorge immediatamente dell’importante posizione geostrategica dello Yemen : a sud, lo stretto di Bab-el – Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden, è punto di passaggio fondamentale per le forniture di petrolio, compreso il greggio saudita, verso l’Occidente. Un eventuale controllo del Paese e dello stretto da parte degli Houthi, sciiti, e, indirettamente da parte dell’Iran, è una prospettiva inaccettabile per i sauditi.

Ingenti interessi economici quindi che si intrecciano con l’antica competizione geostrategica fra Iran e Arabia Saudita per il dominio politico ed economico nella regione. Una competizione che coinvolge anche il confronto etnico –religioso, in un Paese in cui sunniti e sciiti hanno sempre convissuto pacificamente. Senza dimenticare ormai la presenza dei gruppi terroristici che contribuiscono con i loro attentati a rendere sempre più fragile la stabilità dell’intero Paese.

Unica speranza per un popolo martoriato e dimenticato è la ripresa in Kuwait dei fragilissimi negoziati che potrebbero portare a un cessate il fuoco e poi a colloqui di pace. Purtroppo, nello scorso mese di agosto, abbiamo assistito soltanto ad una recrudescenza dei bombardamenti sauditi, che hanno causato centinaia di vittime fra una popolazione ormai allo stremo. E questo sotto lo sguardo spento di un Occidente e di un’Europa molto più attenti ad un redditizio mercato delle armi che non ad un processo di pace.

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