Europa-Cina via Pomigliano

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La disfatta degli azzurri ai mondiali di calcio in Sud Africa, le traversie della finanziaria con i tagli che ne derivano e il pensiero ormai rivolto alle vacanze hanno in parte occultato un evento di prima grandezza nelle relazioni industriali non solo in Italia, ma anche in Europa, quale è stato lo scontro sul futuro dello stabilimento della FIAT a Pomigliano d’Arco in Campania.
Nella vicenda l’Europa era indirettamente coinvolta a causa della forte competizione esercitata sulla multinazionale ex-torinese dalla produzione FIAT realizzata in Polonia, ma anche direttamente nella prospettiva di nuovi accordi di libero scambio – come nel caso della Corea del Sud – proprio nel settore dell’auto che in Europa rappresenta il 36% del manifatturiero e nel quale la Commissione Europea stima a rischio 30 mila posti proprio nel segmento delle auto medio-piccole.
Sullo sfondo, una globalizzazione incalzante in un mercato dell’auto in crescente difficoltà  , anche a causa di una caduta dei consumi in un contesto di politiche di rigore che penalizzano la domanda, rischiando ulteriori dinamiche recessive, con pesanti ricadute occupazionali come confermano le recenti previsioni di Confindustria che stimano la disoccupazione in Italia avviata verso il 10% nel 2011.
àˆ su questo sfondo che va valutato il braccio di ferro della FIAT e la dichiarazione unilaterale – prendere o lasciare – rivolta ai lavoratori e ai loro sindacati. Difficile in queste condizioni parlare di trattativa e l’esito finale del confronto, con i sindacati divisi e un consistente «no» dei lavoratori (oltre un terzo degli interessati), registra quanto meno l’assenza di un consenso di cui l’azienda avrà   bisogno per raggiungere i suoi obiettivi.
Mentre si aspetta di conoscere quali saranno le prossime mosse della FIAT e mentre si assiste a tardive dichiarazioni del governo, segnalatosi per la sua assenza nella vicenda, alcune considerazioni possono essere formulate in merito ad una vicenda che potrebbe dare una svolta significativa alle relazioni industriali, sicuramente della FIAT e del suo indotto ma anche di molti altri settori industriali alla ricerca di maggiore flessibilità   per incrementare produttività   e profitti.
Va rilevato che Pomigliano non è e non sarà   in Europa un fatto isolato: tensioni analoghe l’industria automobilistica le ha conosciute con la General Motors in Belgio dove sono stati soppressi circa 3.000 posti di lavoro, un primo assaggio degli oltre 8.000 tagli previsti in Europa; in Francia, dove Renault e Peugeot hanno in programma 10.000 esuberi, ma anche in Germania dove alla Volkswagen l’occupazione complessiva è stata salvata con negoziati che hanno visto il sindacato IG Metall, unico interlocutore dell’azienda, ottenere garanzie in cambio di una flessibilità   e una moderazione salariale concordata.
Un metodo e un esito diverso da quello subito in Francia e in Italia, anche a causa della frammentazione sindacale e di relazioni industriali che fanno eccessivamente perno sulla conflittualità   diversamente dal sistema della cogestione tedesca.
L’esempio tedesco manda a dire che questa è la strada per difendersi dagli effetti negativi della globalizzazione senza contrastare quelli positivi che, in altri Paesi oggi concorrenti minacciosi, consentono di sviluppare l’economia, accrescere con le esportazioni anche i consumi e, alla fine, anche le importazioni di beni a più alto valore aggiunto dai nostri Paesi.
Si tratta di una dinamica in atto nei Paesi dell’est europeo: oggi in Europa una macchina su cinque è prodotta in Polonia, Ungheria, Romania o Slovenia segnalando una transizione produttiva che ricorda quella della siderurgia o dell’industria tessile dei decenni scorsi, conclusasi per i tradizionali Paesi produttori senza le catastrofi annunciate.
Ma non ci sono solo i Paesi dell’UE ad assorbire molta parte dell’industria automobilistica tradizionale: più voraci si mostrano i Paesi asiatici, dall’India, alla Corea del sud fino alla Cina, senza dimenticare il Brasile. Torna in mente il Giappone degli anni ’80, quando la concorrenza nipponica sembrava travolgere tutto: così non è stato e probabilmente così non sarà   nemmeno per le nuove tigri asiatiche.
Tuttavia, nell’attesa che i mercati trovino nuovi equilibri – e che i Paesi emergenti, Cina in testa, progrediscano sulla strada dei diritti sociali come rivendicato dai recenti scioperi cinesi alla Honda – si fanno sentire pesanti le ricadute sociali per i lavoratori delle nostre industrie in crisi.
àˆ qui che sarebbe giusto aspettarsi, oltre che una visione di lungo periodo da parte di aziende per le quali si annunciano mercati vicini alla saturazione, anche l’intervento della politica chiamata a vegliare sull’interesse generale.
Difficile e forse illusorio chiederlo in questo momento al governo italiano privo di una politica industriale, diviso al suo interno e alle prese con le casse dello Stato, vuote o quasi. Qualche speranza era stata riposta nella riunione del G20 della settimana scorsa a Toronto, per il rilancio della crescita e per nuove regole al mondo selvaggio della finanza. Pochi sono stati i passi avanti verso un governo mondiale dell’economia, sola risposta possibile alle dolorose transizioni industriali in corso e alla riduzione delle disuguaglianze tra i vecchi Paesi industrializzati e i nuovi Paesi emergenti.
Tra queste due aree, Pomigliano fa figura oggi dell’anello debole, costretto ingiustamente a scegliere tra lavoro e diritti, quando invece il lavoro è per tutti il primo dei diritti.

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