L’Europa vent’anni dopo

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9 dicembre 1991, 15 Paesi dell’Unione Europea firmavano il Trattato di Maastricht.
9 dicembre 2011, 20 anni dopo, 26 Paesi UE si sono accordati per un nuovo Patto per tenere in vita l’euro, creato dal Trattato di Maastricht, rafforzarlo e, si spera, per riprendere la strada verso un’Unione politica.
Vent’anni fa a farla da protagonisti, più o meno, gli stessi Paesi di oggi.
Allora Germania, la Francia e l’Italia in difesa della moneta unica, la Gran Bretagna a chiamarsi fuori, con Danimarca e Svezia.
L’altro giorno a Bruxelles, ancora a condurre i giochi la Germania – quella della Merkel, molto diversa da quella di Kohl – , un po’ meno credibile la Francia di Sarkozy, ancora un po’ defilata l’Italia, ammaccata dal lungo periodo berlusconiano e appena riammessa nel club di quelli che nell’UE contano di più.
Dall’altra parte ancora la Gran Bretagna, con Svezia e Danimarca incerti fino all’ultimo, ma poi rientrati nel gruppo dei 26 decisi a fare qualche passo avanti. Con questi anche i 10 Paesi entrati dopo il 2000, con qualche incertezza di Ungheria e Repubblica Ceca.
Viene da pensare che l’Europa-tartaruga, con tutta la sua compagnia di giro, abbia impiegato vent’anni per tornare al punto di partenza o, almeno, per fare quello che con un po’ di saggezza avrebbe potuto e dovuto fare molto prima e magari anche meglio.
Ma è anche meglio tardi che mai. Adesso si è blindato in emergenza l’euro e ci sia avvia su un percorso complicato di accordo intergovernativo (l’Unione di bilancio, voluta a tutti i costi dalla Merkel) quando sarebbe stato più rapido applicare con coraggio il Trattato esistente e mettere mano subito dopo a una vera riforma dell’UE.
Contrastato il giudizio degli osservatori più attenti: da una parte quelli che hanno tirato un sospiro di sollievo per il rafforzamento dell’euro e il sostegno ricevuto dalla Banca centrale europea, per l’uscita dal coma dell’UE e il ritorno sulla scena di alcune sue Istituzioni finora troppo assenti e, perchà© no, per la messa all’angolo della Gran Bretagna preoccupata per le libertà   finanziarie della City; dall’altra quelli che denunciano i limiti dell’Europa della moneta (dei mercati e delle banche), in salsa troppo tedesca, l’assenza di politiche per la crescita e i rischi di complicazioni istituzionali di un patto a 26 che aggrava la deriva intergovernativa dell’UE allontanandola dal progetto federale.
Nella sua giovane storia l’UE non ha mai avuto sobbalzi rivoluzionari e non è questo il caso nemmeno adesso. In passato, quando Occidente e Europa erano ancora – o si credevano – al centro del mondo, la lentezza della tartaruga era più comprensibile. Lo è molto meno adesso che sono venuti giù pezzi interi di mondo, con l’Europa tra i primi candidati a finire sotto le macerie.
Si tratta adesso di vedere come, di qui a marzo, si andrà   configurando il nuovo Patto sull’»Unione di bilancio», quali nuovi equilibri si troveranno tra la vocazione all’integrazione politica dei 17 Paesi dell’euro con i 9 che aspettano in anticamera insieme con la Gran Bretagna, divisi tra loro su un’UE-mercato da una parte e un’UE progressivamente più politica dall’altra.
Se guardiamo al «bilancio dell’Unione» fino ad oggi, non c’è da farsi troppe illusioni. Ma poichà© la speranza è l’ultima a morire, è possibile che questa «Unione di bilancio» possa essere una prima svolta verso più Europa. A una condizione: che se ne facciano carico più i cittadini europei, che non i leaders velleitari e miopi che l’hanno guidata in questi ultimi anni.

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