Il ritorno della fame nel mondo

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Sembrava un incubo ormai relegato nel passato e in limitati territori dell’Africa e dell’Asia. E invece la fame – quella che deriva dalla privazione di beni alimentari essenziali – è tornata a farsi sentire e, secondo molti osservatori, potrebbe diventare una minaccia crescente nei prossimi anni, con puntate inattese anche nei Paesi ricchi. Ma a pagare il prezzo più alto alle conseguenze della crisi alimentare che ha colpito e continuerà   a colpire il pianeta sono inevitabilmente i Paesi più poveri e almeno per due ragioni: da una parte perchà© in questi Paesi il 75% del reddito è destinato all’alimentazione contro il 15% nei nostri Paesi ricchi e dall’altra perchà© le materie prime alimentari sono spesso l’unica risorsa che i Paesi poveri possono destinare all’esportazione.
Per cogliere le dimensioni del problema è necessario soffermarsi su alcuni dati essenziali. Secondo la «Food and Agriculture Organization» (FAO), l’Agenzia delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma, gli aumenti nell’ultimo anno hanno raggiunto cifre da capogiro: +172% per il riso, +113% il grano, +92% l’olio di palma, +77% la soia e +63% il mais. Un incremento dei prezzi che ha generato rivolte in oltre trenta Paesi e spinto molti governi, tra cui quello russo, a bloccare le esportazioni per non sottrarre alimenti indispensabili al consumo locale. Una misura del tutto comprensibile, ma che ha contribuito ad accrescere la speculazione come sempre accade quando un bene si fa raro e indispensabile, ma in questo caso incoraggiata anche da enormi masse di liquidità   alla ricerca di investimenti ad alto reddito nel tempo e diffidenti rispetto agli impieghi tradizionali.
Le cause del fenomeno sono molte e complesse: oltre questa devastante speculazione finanziaria, vi hanno contribuito l’impennata del prezzo del petrolio, le condizioni climatiche delle scorse stagioni, la crescita della domanda alimentare e la riduzione delle superfici coltivabili.
L’aumento del prezzo del petrolio ha inciso per due serie di ragioni: la crescita dei costi di produzione e di trasporto dei prodotti agricoli e l’effetto di trascinamento sulla quotazione di etanolo e biocarburanti con la conseguenza di indurre l’agricoltura a volgersi verso il mercato dei combustibili a spese di quello alimentare. Fa riflettere in proposito un raffronto tra quanto puಠrendere un ettaro di terreno a seconda della sua destinazione: coltivato a colza produce biodiesel in grado di fornire 18 pieni per i SUV che scorrazzano sulle nostre strade mentre coltivato a grano duro potrebbe soddisfare un fabbisogno annuo di pasta per 53 persone! Dal che si deduce che lo stesso ettaro puಠcontemporaneamente avvelenarci di inquinamento e sottrarre alimenti a persone affamate.
Da queste considerazioni, e da altre anche più sofisticate, è esploso il dibattito sulla responsabilità   che la tendenza ad aumentare la produzione di biocarburanti ha nei confronti della penuria alimentare. L’Unione europea, che nel suo piano di rientro dalla dipendenza energetica si era data l’obiettivo di raggiungere la soglia del 10% di produzione di biocarburanti entro il 2020, sta seriamente ripensandoci e già   ha ridotto la quantità   di terre lasciate a riposo, decisione assunta in un contesto di produzione di eccedenze.
Dalle istituzioni internazionali sono venuti appelli in favore di interventi urgenti: il Programma alimentare mondiale (PAM) ha chiesto l’immediata disponibilità   di 500 milioni di dollari, la FAO prevede un piano di intervento per un miliardo e mezzo di dollari e lo stesso Fondo monetario internazionale (FMI), non proprio l’agenzia più compassionevole, ha dichiarato di temere una catastrofe umanitaria.
Perchà© le preoccupazioni più grandi sono per gli anni a venire: la Banca mondiale prevede che «i prezzi rimarranno elevati per tutto il 2008 e il 2009 e ancora nel 2015 resteranno maggiori a quelli del 2004».
Gli occhi degli osservatori sono puntati sul futuro, quando molte centinaia di milioni di persone nel mondo accederanno a nuovi livelli di consumo e si avvicineranno a standard di alimentazione che finora i Paesi ricchi ritenevano riservati a loro soltanto. Basta uno sguardo a quanto accaduto in Cina dove il consumo della carne era di 20 chili pro capite annui nel 1980 ed è stato di 50 chili nel 2007.
Senza contare – anche se sarebbe un calcolo su cui meditare ogni giorno – che se oggi la popolazione mondiale è di 6,2 miliardi di persone, nel 2050 si prevede che sarà   di poco sotto i 10 miliardi e che tutti dovranno poter mangiare.
Le dimensioni del problema sono tali da indurre i nostri responsabili politici e tutti noi a considerazioni che guardino ad una revisione radicale del nostro modello di sviluppo e delle nostre discutibili abitudini in materia di consumi.
Per l’Unione europea uno stimolo ad accelerare i tempi della riforma di una dissennata Politica agricola comune (PAC), costosa per i contribuenti (si porta ancora via quasi il 50% del bilancio comunitario) e per i consumatori, vittime di alti prezzi imposti artificialmente e per i Paesi in via di sviluppo danneggiati dalla politica dei sussidi alle nostre produzioni.
C’è da sperare che anche l’Italia sappia fare la sua parte, dedicando ai grandi problemi di domani e del mondo un’attenzione molto più grande di quella che vi ha accordato in occasione delle recenti competizioni elettorali.

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