Clima teso tra Roma e Bruxelles

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Molti e importanti erano i temi all’ordine del giorno del Consiglio europeo dell’UE a metà   ottobre a Bruxelles. La tempesta finanziaria ha finito per occultarne alcuni, come le prospettive del Trattato di Lisbona e del partenariato con la Russia dopo l’invasione della Georgia, ma non le difficoltà   di trovare un’intesa sulle misure da adottare nella lotta al cambiamento climatico.
Il tema era e resta una delle priorità   fortemente perseguite dalla presidenza francese dell’UE in questo secondo semestre dell’anno, sulla base di una proposta della Commissione europea accolta a suo tempo favorevolmente dai governi dell’UE. Il suo contenuto è caratterizzato da una serie di numeri 20: entro il 2020, la riduzione del 20% delle emissioni del gas serra, 20% in più di consumi da energie rinnovabili e 20% in più di efficienza energetica.
Invocando l’aggravamento della situazione economica e un eccesso di costi per l’Italia il governo, anche sotto la pressione degli ambienti industriali, ha sollevato pesanti riserve sulla praticabilità   degli obiettivi proposti dalla Commissione nel 2007. Nel Consiglio europeo di metà   ottobre era stato raggiunto un faticoso compromesso che, riconoscendo le attuali condizioni di difficoltà   delle nostre economie, manteneva tuttavia saldi gli obiettivi lasciando presagire nelle decisioni rinviate a dicembre una maggiore flessibilità  .
Su questa breccia ha cercato di fare leva l’Italia, d’intesa con la Polonia e altri Paesi dell’Europa dell’Est, dando battaglia fino a brandire l’arma del veto. Un’arma spuntata poichà© la decisione sarà   presa a maggioranza, ma che già   ha aggravato l’isolamento dell’Italia, impigliata in alleanze non proprio di progresso e incline a scivolare sulla china del non rispetto di regole a suo tempo condivise.
Alla vigilia del Consiglio dei ministri dell’Ambiente, riunito successivamente in Lussemburgo, a dare fuoco alle polveri sono intervenuti alcuni complicati calcoli sul costo per l’Italia delle misure proposte nel «pacchetto clima». In estrema sintesi: per il governo italiano l’Italia avrebbe costi attorno a 18/20 miliardi di euro all’anno per dieci anni, per l’UE poco più di metà  . Dov’è il «trucco contabile»? In buona parte nella presa in conto da parte dell’UE del ritorno positivo grazie al taglio dell’importazioni di idrocarburi, all’innovazione tecnologica indotta e alla creazione di nuova occupazione, «ricavi» non contabilizzati nel calcolo italiano.
Trattandosi di costi riferiti ad incerti scenari futuri sarà   saggio fare chiarezza, soprattutto nella prospettiva di una crescita economica debole. Ma quello che appare chiaro fin d’ora è il grave ritardo dell’Italia nella lotta contro il cambiamento climatico come rivela anche la non proprio buona compagnia in cui si trova il nostro Paese, alleato in questo muro contro muro con le economie più arretrate dell’UE.
Se a questo si aggiungono altre pesanti deviazioni dalle regole comunitarie, come nel caso dell’immigrazione, del Patto di stabilità   e degli aiuti di Stato – tra l’altro riservati a industrie non proprio amiche dell’ambiente come quelle automobilistiche – allora il quadro prende forma e non con colori rasserenanti.
Perchà© a ben guardare, tutte queste crescenti flessibilità   invocate dall’Italia convergono verso un indebolimento del «patto comunitario» di cui il «patto per l’ambiente» è un elemento importante. Se poi a flessibilità   molteplici si aggiunge, anche nella salvaguardia dell’ambiente, la nostra nota arte del rinvio allora il rischio è grande che i risultati arrivino fuori tempo massimo, con un futuro ipotecato e un pianeta ormai «rottamato».
Intanto un primo rinvio l’Italia lo ha già   ottenuto e altri ne minaccia: si aspetterà   il Consiglio europeo di dicembre per decidere, nella speranza che nel frattempo in tutti prevalga la saggezza e la solidarietà   verso le generazioni future. Per non finire con la domanda di Woody Allen che cinicamente si chiedeva: «Ma che cos’hanno fatto per noi i posteri, perchà© io debba preoccuparmi per loro?».

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