Venti di dittatura in Turchia

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Sta diventando molto pesante il clima che si respira in Turchia dopo il fallito golpe dell’anno scorso a luglio.

Lo stato di emergenza è continuamente prorogato di tre mesi in tre mesi e, secondo le recenti dichiarazioni di Erdogan , “non sarà rimosso finché non sarà raggiunta la pace”. Un traguardo, nelle parole del Presidente, difficile da interpretare.

In meno di un anno, il golpe ha avuto come conseguenza tutta una serie di purghe nell’ambito della giustizia, dell’istruzione e della cultura, del giornalismo e nel settore pubblico. Il Governo ha ordinato e proceduto al licenziamento di 150.000 persone, ad oggi sono 100.000 le persone indagate e 40.000 gli arresti.

Nello scorso aprile, il Presidente ha vinto la scommessa, attraverso un referendum, di una riforma costituzionale che aumenta notevolmente i suoi poteri e restringe quelli del Parlamento. Con quella vittoria Erdogan avrà completamente in mano l’esecutivo, abolendo i contrappesi necessari alla democrazia e aprendo di fatto la strada ad un regime dittatoriale. Non solo, ma all’indomani del referendum il Presidente non ha esitato ad annunciare la possibilità di un’altra consultazione popolare per reintrodurre la pena di morte.

Un passo supplementare verso un sistema sempre più dittatoriale, è stato fatto il 15 giugno scorso con la condanna, da parte della Corte di Istanbul, a 25 anni di carcere per Enis Berberoglu, esponente del maggior partito di opposizione, il CHP (Partito Popolare repubblicano), fondato da Ataturk, “padre” della Turchia moderna. L’accusa è quella di aver consegnato al giornale di opposizione Cumhuriyet un video del gennaio 2014, con immagini che dimostrerebbero il coinvolgimento dei servizi segreti turchi nella fornitura di armi alla Siria. A chi fossero destinate le armi, non è dato sapere, anche se il Governo ha riconosciuto il fatto e un’inchiesta al riguardo sia stata aperta, poi immediatamente insabbiata.

Con l’accusa quindi di aver infranto un importante segreto di Stato, il deputato ed ex giornalista Berberoglu è andato a raggiungere in carcere altri undici parlamentari appartenenti  in particolare al partito filo curdo HDP (Partito Democratico dei Popoli),  fra cui il carismatico leader Selahattin Demirtas, rimasti tutti senza immunità parlamentare dopo una legge approvata nel maggio 2016. Ma soprattutto, in un contesto in cui la magistratura agisce spesso su impulso politico, si teme che la misura possa colpire altri parlamentari dell’opposizione.

La sentenza e le condizioni in cui si è svolto finora il processo hanno indignato buona parte dell’opposizione che ha deciso di esprimere la propria protesta con una marcia a piedi di 450 kilometri, per “la giustizia”,da Ankara a Istanbul. E non solo per la giustizia, dicono i migliaia di partecipanti, ma anche per il futuro del Paese.

In questo inquietante scenario, la Turchia continua ad essere membro del Consiglio d’Europa e Paese candidato all’adesione dell’Unione Europea e questo dovrebbe comportare il rispetto dei diritti fondamentali e il principio dell’abolizione della pena di morte. Sul versante dei negoziati per l’adesione si puo’ dire che, di fatto, si trovano ad un punto morto e la sensazione è che l’Europa, dall’apertura dei negoziati nel 2005 e a causa dei veti incrociati di molte cancellerie, abbia perso il momentum con la Turchia. Rimane solo il filo conduttore di un accordo concluso nel marzo scorso in cui, in modo ambiguo e per incapacità ad adottare una politica dell’immigrazione coraggiosa e coerente, l’Unione Europea ha affidato nelle mani di questa Turchia la gestione della crisi umanitaria in Siria e il dramma dei migranti che raggiungono le sue coste.

Eppure, appare significativo che rappresentanti dei partiti d’opposizione, anche dal carcere, invochino l’Europa e chiedano di non sospendere il negoziato. E’ per loro un faro a cui ispirarsi per continuare sulla strada della democrazia, oggi più che mai oscurata dai forti venti di dittatura che attarversano il loro Paese.

 

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