Unione europea, sconosciuta e incompiuta

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Molti i tentativi di definire l’avventura europea. Forse la definizione più sintetica, ma anche la più chiara è quella di «Ufo», acronimo inglese che sta per «Unidentified flying objects», in italiano: oggetti volanti non identificati, nel linguaggio corrente «dischi volanti». Non è la trovata di qualche buontempone o di uno dei tanti euroscettici in circolazione. Così l’Unione europea è stata definita da uno dei suoi padri nobili, quel Jacques Delors che della Commissione europea fu a lungo ottimo presidente e del processo di integrazione europea uno dei maggiori protagonisti.
Molto ci sarebbe da dire su questa situazione un po’ paradossale: l’UE, il più rilevante progetto politico del secolo scorso, ormai con mezzo secolo di vita, con la partecipazione di ventisette Paesi, con quasi mezzo miliardo di popolazione, primo attore economico-commerciale del mondo resta una realtà   sconosciuta o mal conosciuta da una grande maggioranza dei suoi cittadini.
Quanto basterebbe per stimolare la curiosità   degli osservatori di questo strano fenomeno e cercare di capirne le ragioni.
Forse una prima spiegazione risiede proprio nella sua natura di «oggetto volante», qualcosa che si muove e cambia posizione in spazi lontani e difficili da individuare.
Una costruzione politica in evoluzione, che da oltre mezzo secolo cresce cercandosi un suo profilo e inventandosi giorno dopo giorno un futuro.
Si tratta di una spiegazione tutto sommato positiva: il prezzo da pagare per un’avventura inedita, senza un passato da riprodurre e un modello da imitare.
Ma è una risposta che non soddisfa del tutto e invita a cercare ancora. Per esempio indagando dell’UE la grande complessità  , inevitabile quando si vogliono mettere insieme così tanti Paesi diversi, rispettandone storia, culture e istituzioni. Sicuramente una realtà   non facile da raccontare, ancora meno in una stagione di informazione superficiale dove fa premio lo «scoop» se non il «gossip» e rara si fa la capacità   di leggere fenomeni complessi e magari anche un po’ noiosi.
Questo spiegherebbe la natura di «oggetto non identificato» a causa di una reale opacità   dell’Unione europea con le sue istituzioni senza un riscontro con quelle nazionali che conosciamo, per di più male, e con le sue politiche spesso raccontate in un gergo riservato agli addetti ai lavori.
C’è del vero in questa lettura, tutto sommato amara, di un’Europa grande sconosciuta. Ma nemmeno questa spiegazione basta a fare chiarezza su quanto sta accadendo in questa stagione di democrazie fragili e di cittadinanze deboli.
A questo punto il dubbio che si insinua prende la forma di una domanda: e se fosse che questa assenza di conoscenza tradisce il sintomo di una malattia, quella di una sempre minore partecipazione dei cittadini alla «cosa pubblica»? E se questa distanza dei cittadini dalle loro istituzioni, che siano nazionali o europee fa poca differenza, fosse funzionale a quella forma di «autoritarismo dolce» che si va diffondendo in nome dell’efficacia nel governare, riducendo la complessità   di quella divisione dei poteri propria delle nostre democrazie e facendo prevalere il potere dell’esecutivo su quello legislativo e quello giudiziario?
Se questo fosse, allora l’Europa sarebbe almeno in parte una sorta di capro espiatorio, naturale vittima designata ad addossarsi responsabilità   non sue a causa di un intreccio perverso tra la reale complessità   delle sue istituzioni e la tendenza dei governi degli Stati membri verso pericolose forme di decisionismo in nome del solo interesse nazionale, alla ricerca di un immediato e facile consenso.
In Italia molti sono gli indizi in questo senso: dalla vicenda dell’Al-italianità   al rifiuto di onorare gli impegni presi sulla tutela dell’ambiente, dalle resistenze alle regole della politica agricola comune alle inquietanti misure a carico dei cittadini immigrati.
Non molto meglio va in altri Paesi dell’UE: ce ne accorgeremo presto se continuerà   la cacofonia che ha caratterizzato in questi ultimi giorni le risposte di alcuni Stati membri, come nel caso dell’Irlanda, a proposito della crisi finanziaria e della necessità   di tutelare i risparmiatori europei.
Viene da parafrasare alla rovescia una celebre frase risorgimentale riferita allora all’Italia: «gli europei ci sono, adesso bisogna fare l’Europa». Nel senso di educare i cittadini dei nostri Paesi a costruire l’Europa anche quando governi nazionali miopi la trascurano o la contrastano. Si tratta di un’impresa difficile ma non impossibile, di una pedagogia paziente e di lungo periodo.
E c’è un luogo naturale per avviare questa pedagogia: la scuola, palestra di cittadinanza non solo italiana ma anche europea, dispensatrice di conoscenza senza la quale la democrazia è parola vana.
Italia ed Europa, due appartenenze, una sola cittadinanza e una sola causa: quella della democrazia, nazionale e sopranazionale, come detta l’articolo 11 della Costituzione italiana.

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