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E così Italia e Europa, dopo tanto tergiversare, sono arrivate al dunque.
Insieme vivranno o cadranno, al culmine di una insolita drammatizzazione di una situazione sicuramente difficile, ma non certo da fine del mondo.
E nemmeno da fine imminente dell’euro. La ragione è semplice: l’euro è stato un matrimonio di interesse e adesso non conviene a nessuno divorziare. Troppo alti sarebbero i costi per tutti: dai Paesi in difficoltà   che pagherebbero più caro senza quello scudo dell’euro, per la Germania che ne ha bisogno per la sua competitività   internazionale, per i 17 Paesi della moneta unica che hanno già   avviato un patto di integrazione politica, ma anche per i Paesi UE che nell’euro aspettano di entrare per mettersi al riparo.
Che crolli non conviene nemmeno a chi dell’euro non ne vuole sapere, Gran Bretagna in testa, oggi lontana mille miglia dall’euro e tiepida sull’Unione Europea di cui fa parte: un atteggiamento da considerare con attenzione, senza demonizzarlo ma anche senza piegarsi all’isola ex-imperiale, ancora convinta che se c’è nebbia sulla Manica sia il continente a essere isolato.
La scomparsa dell’euro non fa dormire sonni tranquilli nemmeno agli USA, incerti da sempre se sostenerlo o contrastarlo, ma oggi bisognosi anch’essi della sua sopravvivenza, tanto sono intrecciati gli interessi economici e le crisi finanziarie al di qua e al di là   dell’Atlantico.
Non molto diversa è la condizione dei Paesi emergenti, dalla Cina all’India, dalla Russia al Brasile che già   stanno pagando in casa loro le difficoltà   dell’euro, e dell’economia europea, con una crescita rallentata e il timore di un possibile contagio.
Tutto questo spiega perchà© nei giorni scorsi le Banche centrali di mezzo mondo si siano coordinate come non mai per contrastare la crisi finanziaria in Europa e perchà© il Fondo Monetario Internazionale (FMI) tenga pronte le sue munizioni per intervenire sul fronte caldo dell’euro.
Ma se la crisi ha dimensioni globali non significa che l’Europa non debba fare la sua parte.
A cominciare dalle Istituzioni UE, ormai inadeguate per rispondere alle sfide della globalizzazione: i Trattati vanno riformati, almeno per l’eurozona, e non solo in senso punitivo come vuole la Germania con la sua proposta di Unione fiscale sul tavolo del Consiglio europeo del 9 dicembre.
Sarà   anche l’occasione per la Germania di rassicurarci sul rischio di sue derive euro-nazionaliste e per capire quanto l’agitarsi del Presidente francese traduca una preoccupazione per l’Europa e quanto per la propria rielezione fra qualche mese.
Senza dimenticare l’Italia, appena riaffacciatasi in Europa dopo una lunga latitanza e che è adesso alle prese con una «cura da cavallo», troppo forte coi deboli e troppo debole coi forti, per riparare alla «politica del rinvio» e ritornare in linea di galleggiamento e poi, si spera, per tornare a navigare.
Ma l’Italia, impegnata nel risanamento dei suoi conti, non puಠessere salvata solo dal governo tecnico di Monti e nemmeno dal Quirinale di «Re Giorgio»: devono dare un forte contributo tutti i suoi cittadini, consapevoli del momento difficile e pronti a fare la loro parte, nella misura delle possibilità   di ciascuno. Almeno fino a quando varrà   l’art. 53 della nostra Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità   contributiva». Senza perಠdimenticare che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività  ».
A questo impegno di partecipazione, non solo fiscale, sono chiamati anche tutti i cittadini del continente se vogliono che l’UE viva e si rafforzi, riducendo lo «spread» più pericoloso: la distanza che li separa da un’Europa autenticamente democratica, decisa a ritrovare la strada della solidarietà   e dell’equità  .
Così i cittadini potranno finalmente riappropriarsi dell’UE come loro «comunità   di destino»: una nave robusta su cui navigare insieme nel mare in tempesta di un mondo che cambia e che non sarà   mai più quello di prima.

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