Da Lisbona all’Europa via Dublino

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«L’essenziale non è sapere dove andare, ma andarci» ebbe a dire della costruzione europea uno dei suoi padri fondatori, Jean Monnet. Deve essere un po’ quello che hanno pensato i Capi di Stato e di governo riuniti la settimana scorsa nel Consiglio europeo di Bruxelles. Dopo il «no» di Dublino al Trattato di Lisbona difficile dire dove andare e così è stato deciso di prendere fiato fino ad ottobre e verificare quali altri Paesi si saranno aggiunti ai diciannove che ad oggi hanno già   ratificato il Trattato.
Così l’UE riparte con un ritmo «stop and go» che da oltre cinquant’anni non le ha impedito di raggiungere importanti risultati, dal consolidamento della pace all’unificazione di un continente diviso, dallo sviluppo economico alla realizzazione della moneta unica e molto altro ancora.
Ma tutto questo non basta a convincere molti europei che questa sia la «loro» Europa, come ci è appena stato ricordato da Dublino.
Troppo facile denunciare l’inadeguatezza dello strumento referendario nazionale che ha affidato, nel caso irlandese, a meno dell’1% della popolazione europea il potere di bloccare il percorso del restante 99%.
Resta perಠda spiegare perchà©, quasi ogni volta che sono stati consultati direttamente, i cittadini europei abbiano manifestato, con numeri più o meno significativi, il loro dissenso.
Questi «no» non hanno impedito più di tanto all’Europa di continuare per la sua strada, ma sarebbe un errore considerarli banali incidenti di percorso. Sarebbe anche un contributo ad ingrossare il sospetto di quanti pensano che un’estensione agli altri Paesi UE dello strumento referendario darebbe, ovunque o quasi, un analogo risultato negativo.
Premesso che la ratifica parlamentare ai Trattati UE non solo non calpesta le regole della democrazia rappresentativa ma è da questa richiesta, come nel caso della Costituzione italiana, non c’è motivo di escludere per principio lo strumento referendario. Deve trattarsi, perಠdi uno strumento di dimensione europea che sul destino dell’UE interroga simultaneamente l’insieme dei cittadini europei, chiamandoli tutti alla corresponsabilità   nella decisione.
Perchà© ciಠpossa avvenire nel rispetto della democrazia sono necessarie almeno due condizioni: da un lato una revisione di molte Costituzioni nazionali in senso sovranazionale, e non sembra che ve ne siano oggi le condizioni, e dall’altro la possibilità   di un reale e diffuso dibattito a livello europeo con il contributo di media attenti agli interessi dell’Europa piuttosto che a quelli nazionali o delle rispettive proprietà  .
Forse un giorno tutto questo potrà   avvenire e sarebbe un bel giorno per la democrazia: per ora bisogna farsi bastare quello che passa il convento, in particolare per quanto concerne una politica europea dell’informazione
Si tocca qui un punto nodale sulla formazione del consenso/dissenso alle decisioni europee. Molte e spesso contraddittorie le ragioni invocate in questi anni dai sostenitori del «no», spesso più motivate dalle politiche nazionali che da quelle europee. Ma una si presenta costante nel tempo e a tutte le latitudini: la denuncia di non trasparenza dei contenuti dei Trattati e del loro impatto concreto sulla vita dei cittadini europei. Una denuncia che non si puಠrispedire al mittente con un’arrogante alzata di spalle. E’ una ragione che pesa come un macigno e che bisognerà   rimuovere al più presto per evitare altre bocciature, magari già   con un elevato tasso di astensionismo alle elezioni europee tra un anno.
Certo il progetto europeo è stato ai suoi inizi un colpo di genio di una à©lite politica oggi priva di successori e certo la sua progressiva realizzazione è stata condotta nel tempo con grandi competenze tecniche. Ma quanto questo straordinario patrimonio è stato condiviso con i suoi attori naturali, i cittadini europei?
Molto si è fatto all’interno delle cancellerie, ma si sa che la virtù principale delle diplomazie non è nà© la pedagogia nà© la trasparenza. Molto ha fatto una tecnocrazia europea tanto efficiente quanto poco capace di comunicare e di associare i cittadini al proprio prezioso lavoro. E i risultati si vedono: non sono solo i «no» referendari, ma anche un diffuso sentimento di disaffezione dei cittadini nei confronti delle loro istituzioni, opache e incapaci di rappresentare, spiegare e coinvolgere. Con la conseguenza che la democrazia si indebolisce di giorno in giorno tra uno scontento diffuso che diventa un facile terreno di cultura per populismi che noi già   conosciamo e l’Europa farebbe bene a temere. E’ il momento di agire, magari investendo maggiormente nell’informazione e nel confronto e cominciando dalla scuola dove si formano i futuri cittadini europei che è urgente coinvolgere fin da subito in un’avventura di pace e solidarietà   che non ha eguali al mondo.

1 COMMENTO

  1. La settimana scorsa sono stata ad un seminario organizzato dal Movimento federalista europeo sulle prospettive dell’Unione, e ne sono rimasta molto delusa. L’atteggiamento è sempre lo stesso: l’Europa è complessa, i governi scaricano le conseguenze delle scelte che fanno (in sede nazionale o europea) su una fantomatica “Bruxelles”, i cittadini non capiscono, il problema è la cattiva comunicazione…Tutte cose vere, per carità , ma tre referendum di bocciatura sullo stesso Trattato, i sondaggi di Eurobarometro che danno la fiducia nell’Europa in calo in tutti gli Stati membri, compresi i più europeisti come l’Italia…di fronte a queste cose non possiamo trincerarci dietro a un “problema di comunicazione”. Anche perché si rischia di farsi prendere la mano e di arrivare a dire che i referendum sono “una mistificazione” perché i cittadini “non sono in grado di capire un trattato, ed è giusto che sia così”, e ancora “chi sosteneva che il Trattato costituzionale doveva essere più leggibile è un falso europeista”. Che queste frasi siano state pronunciate dall’ambasciatore Fagiolo, che ha negoziato per conto dell’Italia tutti i trattati europei da Maastricht in poi, non può stupirci…in fondo ognuno cerca di mantenere il proprio potere. Ma che siano state pronunciate ad un’iniziativa organizzata dal Movimento federalista, che fin dalle sue origini ha fatto dell’Europa unita un progetto di democrazia continentale!be’, questo stupisce e ferisce anche un po’.
    L’unico modo per salvare il “sogno europeo” è avviare una seria riflessione sulle vere ragioni della grande disillusione. E di questi ultimi tempi, purtroppo, dalla direttiva sui rimpatri/centri di detenzione a quelle sulla settimana lavorativa di 65 ore, gli spunti non mancano!

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