Chi segue anche solo distrattamente l’attualità europea se n’è accorto da un pezzo: i funzionari dell’Unione, i media specializzati e talvolta anche gli europarlamentari usano un linguaggio tutto loro, che spesso è difficile da decifrare. Forse non tutti hanno notato però che una delle parole più ricorrrenti nei dibattiti pubblici nazionali – migrante o immigrato – non fa parte di questo “eurogergo”. E in effetti in Europa ci sono due modi di essere migranti, e tutto dipende dal passaporto: se è bordeaux e scritto in 23 lingue, allora si è “migranti interni”, cittadini europei che si trasferiscono da uno Stato membro all’altro; altrimenti si è “cittadini di stati terzi”. Ai primi si applica la libertà di movimento e di stabilimento e i principi di non discriminazione stabiliti dai Trattati. I secondi invece sono principalmente soggetti alle normative nazionali in materia di ingresso e soggiorno. Infatti, malgrado il fatto che – come riportato costantemente da Eurobarometro – i cittadini europei vedano la gestione dell’immigrazione come uno dei ambiti in cui maggiormente dovrebbe svilupparsi un’azione comune, un reale coordinamento delle politiche migratorie nazionali stenta a decollare. Nei primi anni 2000, le iniziative legislative della Commissione sono state sistematicamente indebolite dagli Stati membri nei negoziati in seno al Consiglio (che ha sempre cercato di tenere il Parlamento a margine di questo processo). In questi stessi anni, a seguito degli attentati terroristici negli USA e in Europa, la DG Giustizia e Affari interni assume una dimensione sempre più securitaria, concentrandosi sulle misure di contrasto all’immigrazione irregolare, per esempio con la costituzione dell’agenzia per il controllo delle frontiere FRONTEX. Parallelamente, si gettano le basi verso una politica comune per l’asilo, per rispondere all’incremento che dagli anni Novanta avevano avuto le richieste di protezione umanitaria. L’immagine del “cittadino di Stato terzo” attorno a cui si modellano le politiche comunitarie è alternativamente di clandestino o di vittima, e si fa sempre più netto il distacco fra migranti esterni e migranti interni, per i quali l’Unione promuove una cittadinanza attiva ed un quadro di pari opportunità e responsabilità. Infatti, gli Stati si dimostrano più che restii a discutere in sede europea le politiche di accesso per i migranti economici e, soprattutto, le questioni legate all’acquisizione della cittadinanza e alla partecipazione politica dei cittadini di Stati terzi da tempo residenti sul loro territorio. Sul fronte dell’integrazione culturale e sociale, invece, qualcosa si muove e il 2009 è per molti aspetti un anno di svolta: con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non solo ha fine un travaglio costituzionale durato quasi dieci anni che aveva compromesso l’attività delle istituzioni, ma viene estesa la base legale per l’azione dell’UE nel campo dell’integrazione e potenziato il ruolo del Parlamento con il passaggio dalla procedura di consultazione a quella ordinaria, che lo pone pari grado al Consiglio (art. 79 par. 4). Nel 2009, per la prima volta, viene affrontata la questione della messa in comune delle politiche di ingresso per i migranti economici, seppure solo dei lavoratori altamente qualificati (con la direttiva “Blue Card”). Ma soprattutto, il 2009 è l’anno dell’approvazione del programma di Stoccolma su giustizia, libertà e sicurezza, che potenzia notevolmente il capitolo dell’integrazione dei cittadini di Stati terzi. Quello stesso anno vengono creati il Forum – una piattaforma di confronto per la società civile– e il Sito europeo per l’integrazione, per facilitare lo scambio di buone pratiche. In applicazione del Programma di Stoccolma, nel 2011 viene adottata una nuova “Agenda” volta a orientare le politiche degli Stati verso un programma comune, anche grazie al finanziamento di azioni mirate con il Fondo apposito. Queste iniziative sono rivolte principalmente ai nuovi arrivati piuttosto che agli immigrati che – pur non essendo cittadini dell’Unione Europea – risiedono da tempo sul suo territorio. Ancora oggi, quindi, il divario fra migranti esterni ed interni rimane profondo, come pare evidente dal fatto che la strategia Europa 2020, pur facendo dell’inclusione sociale una delle sue priorità, non fa riferimento ai lavoratori provenienti da paesi terzi. Un passo avanti in questa direzione è stato fatto con l’approvazione, nello scorso dicembre, della direttiva “sul permesso unico” che dà agli Stati membri due anni di tempo per modificare la propria legislazione in modo tale da garantire ai lavoratori di paesi terzi gli stessi diritti di quelli europei in materia di condizioni di lavoro, riconoscimento delle qualifiche professionali e accesso al welfare, inclusi i trattamenti pensionistici. Un’iniziativa importante di cui il Parlamento ha saputo difendere l’ambizione di fronte al Consiglio, verso il raggiungimento di una piena eguaglianza di opportunità per i residenti dell’Unione Europea.