Quando si scrive un Trattato importante come quello di Lisbona, attualmente in vigore per l’Unione Europea, bisogna fare molta attenzione alle parole che si usano, tanto più se quelle parole campeggiano nel primo articolo che recita orgoglioso: “Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa…”.
Rilette a distanza di quasi un ventennio dalla loro redazione quelle parole fanno sorgere un dubbio: quell’espressione “più stretta”, sta per maggiore coesione e unità o per una più limitata integrazione tra i suoi Paesi membri?
La risposta a questa domanda può contribuire a disegnare una geografia politica nell’Unione tra Paesi che vogliono fare progredire il continente verso una sovranità europea e quanti hanno nostalgia di presunte sovranità nazionali, tra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno, tra chi prosegue sulla strada dei Padri fondatori delle prime Comunità europee e vorrebbero rifondare l’Unione in senso federale e chi questa Unione rischia di affondarla continuando a invocare, fuori dalla storia, il protagonismo delle “Nazioni”.
Tracciare una linea di demarcazione tra questi due gruppi di Paesi non è facile: da una parte per la variabilità delle politiche nazionali e dall’altra per il velo di ambiguità, se non di ipocrisia, di governi esposti all’incertezza del futuro quadro internazionale, in particolare alla vigilia delle elezioni presidenziali americane.
Un tempo sarebbe stato spontaneo schierare, tra chi vuole proseguire sulla strada dell’integrazione continentale, i sei Paesi fondatori e quanti li hanno raggiunti prima del grande allargamento ad est, ad esclusione del Regno Unito, come avrebbe dimostrato la sua uscita dall’UE nel 2020. Più difficile schierare gli ultimi arrivati, per non parlare di quanti aspettano di entrare nei prossimi anni.
Nella vecchia Comunità a sei era normale che cercassero solidarietà e coesione Paesi minori come Belgio, Olanda e Lussemburgo e Paesi più importanti come Francia e Germania, all’origine del percorso comunitario, insieme all’Italia alle prese con la ricostruzione post-bellica. Oggi il Belgio è da mesi senza governo, l’Olanda ne ha uno fuori dagli schemi tradizionali, Francia e Germania vivono crisi politiche profonde che minano la stabilità dei rispettivi governi e ne riducono il ruolo di guida nell’UE.
Della vecchia compagnia resta da collocare nella nuova geografia politica europea l’Italia, registrandone la relativa stabilità del governo, ma con una maggioranza molto divisa nei confronti delle politiche europee con una sola delle sue tre componenti tradizionalmente favorevole al processo di integrazione europea e, tra le altre due, una nettamente contraria e l’altra, maggioritaria, non esente da ambiguità e forse più atlantista che europeista.
L’impressione è che questa maggioranza politica vorrebbe “meno Europa” ma ha bisogno di averne “di più”, viste le sue malconce condizioni economiche e finanziarie, alle prese con un debito pubblico che continuerà a crescere nei prossimi anni e una procedura di infrazione per deficit eccessivo, una produzione industriale in costante calo, un sistema previdenziale a rischio e una realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) in ritardo di esecuzione, non solo sul versante della spesa effettiva ma anche su quello delle molte riforme in sospeso.
E’ in questo quadro, aggravato da persistenti ambiguità politiche, che prende forma la marginalità dell’Italia e il rischio di un suo isolamento nell’UE, al quale non si rimedia certo con la bandierina di una vicepresidenza nella Commissione europea, come dimostra il modesto portafoglio proposto per il candidato commissario italiano, equivalente al portafoglio del rappresentante portoghese nella Commissione in scadenza.
E ancor meno rassicurano in questo contesto i ripetuti richiami alla “Patria”, salvo che questa diventi quella “Patria Europa” invocata con la visione lunga di autentico statista da Alcide De Gasperi nel 1951 a Parigi. Quella Patria che assomiglia da vicino a un’Unione “sempre più stretta”, quella orientata in senso federale, come disegnata recentemente dal Rapporto di Mario Draghi, fedele in questo all’Europa dei nostri Padri fondatori.