Università  , istruzione e ricerca: dove va l’Italia?

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Per l’università   italiana questi sono tempi bui. Eppure, in questi giorni qualche accademico ha fatto uno sforzo di immaginazione per discutere con altri suoi colleghi europei di come migliorare la mobilità   di studenti, docenti e ricercatori in Europa, grazie ad un’iniziativa della presidenza francese intitolata «L’Europa dell’insegnamento universitario, uno spazio di mobilità   da potenziare». In effetti, è difficile immaginare quali miglioramenti potrà   mettere in atto un sistema universitario che di qui al 2013 vedrà   il fondo di finanziamento ordinario ridotto di un miliardo e mezzo di euro.
Questi tagli, oltre a permettere nell’immediato di «far cassa», sono lo strumento indispensabile per fare in modo che gli atenei usufruiscano della possibilità   offerta loro dalla stessa legge finanziaria, ovvero la trasformazione in fondazioni di diritto privato: alternativa, il fallimento. Sta tutta qui, la manovra (pomposamente chiamata «riforma») dei ministri Gelmini e Tremonti sull’università  .
Ma, sostiene un mito diffuso, questa non è che una mera applicazione dei «dettami» europei, che, a partire dal processo di Bologna, hanno orientato le scelte del legislatore italiano in questo campo.
Vediamo di fare un po’ di chiarezza.
Innanzitutto, una precisazione: quando parliamo di istruzione e ricerca siamo nel campo della cooperazione fra Stati membri, che l’UE incoraggia. Non esiste una politica comune dell’istruzione, nà© tantomeno «dettami» a cui gli Stati membri sono obbligati ad uniformarsi.
Il processo di Bologna: si tratta di una cooperazione avviata nel 1999 fra 29 Stati europei (oggi diventati 45) con l’obiettivo di creare entro il 2010 uno spazio di mobilità   europea per l’istruzione universitaria. Come si puಠintuire dal numero degli Stati coinvolti, il processo di Bologna trascende la dimensione comunitaria (sebbene l’UE faccia propri i principi guida del processo): è infatti coordinato dal Consiglio d’Europa. Per favorire una maggiore mobilità   all’interno del continente, gli Stati europei si sono accordati su varie misure che hanno trovato applicazioni a livello interno, come l’attribuzione ad ogni esame di un numero di «crediti» proporzionale alle ore di studio e l’istituzione di un sistema basato su due cicli (il «3+2»), che finora sembra aver dato buoni frutti se non altro in termini di riduzione della dispersione scolastica: secondo l’OCSE, in Italia la percentuale di laureati di età   23-25 anni è passata dal 19% al 41% tra il 2000 e il 2005. Altri strumenti promossi da Bologna, come il riconoscimento dei periodi di studio all’estero e la creazione di titoli facilmente comprensibili e comparabili, stentano a trovare una piena applicazione.
La strategia promossa dall’Unione europea «Istruzione e formazione 2010» stabilisce vari obiettivi per l’istruzione universitaria: oltre al rispetto di quelli legati al processo di Bologna, gli Stati membri si impegnano a migliorare l’equità   e l’efficienza dei sistemi educativi e ad aumentare i finanziamenti destinati all’insegnamento e alla ricerca. Per valutare la modernizzazione del sistema universitario, è stabilito il criterio di un livello di investimento (pubblico e privato) nel settore pari al 2% del PIL, mentre per quanto riguarda la ricerca, l’obiettivo derivante dalla Strategia di Lisbona è quello di un 3% complessivo del PIL destinato al settore ricerca-sviluppo. Nel 2005, in Italia la spesa per il sistema universitario ammontava allo 0,75% del PIL (media europea: 1,1%) e quella in ricerca-sviluppo allo 0,9% del PIL (contro l’1,9% europeo).
La nuova legge finanziaria italiana rema contro il raggiungimento di questi obiettivi che gli Stati membri, fra cui l’Italia, hanno sottoscritto. La riduzione del 10% del fondo di finanziamento ordinario abbatte il livello di investimento sull’istruzione, mentre il blocco del turn-over al 20% (che implica che solo un docente su 5 che va in pensione potrà   essere sostituito), oltre ad avere un impatto negativo sull’offerta formativa rivolta agli studenti, impedisce il ricambio generazionale indispensabile per una ricerca innovativa.
Certo, il finanziamento al sistema universitario non si esaurisce con la spesa pubblica: la Strategia di Lisbona prevede infatti un maggior coinvolgimento del settore privato, soprattutto nella ricerca. Ma questo nell’ottica di incrementare la spesa complessiva fino a raggiungere gli obiettivi del 2% per l’istruzione universitaria e del 3% per la ricerca. àˆ invece impensabile, anche in un sistema di università  -fondazioni, che, diminuendo la spesa pubblica, quella privata aumenti a un livello tale anche solo da compensare quei tagli.
Infatti, secondo i dati dello stesso ministero dell’Istruzione, le entrate delle università   private attualmente esistenti provengono solo per il 3,9% da soggetti privati, mentre la fetta principale proviene comunque dal settore pubblico (53,7%): oltre a un certo livello, il privato non ha interesse a investire in istruzione e ricerca, mentre lo Stato ha il dovere di farlo.
Venuto meno il sostegno pubblico, e in assenza di un’adeguata contropartita dai privati, per sopravvivere le università  -fondazioni potrebbero essere tentate di fissare le rette per gli studenti a un livello molto alto. E potrebbero farlo, perchà© la legge finanziaria non fissa alcun tetto massimo al riguardo, nà© prevede in capo alle università  -fondazioni alcun obbligo di universalità   o di accessibilità   dell’istruzione universitaria.
Una privatizzazione de-regolamentata di questo tipo non contribuisce certo ad una maggiore equità   del sistema universitario, come vorrebbe il piano «Istruzione e formazione 2010».
E, detto sottovoce per non disturbare nessuno, vìola nella sostanza l’art. 3 della Costituzione italiana, a sessant’anni dalla sua proclamazione. Buon compleanno!

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