Quale Unione Europea stiamo costruendo

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Per l’Unione Europea è sempre il momento dei bilanci, come è giusto per una straordinaria impresa unica nella storia, quella di dare vita ad una realtà multilaterale progressivamente in grado di aggregare pacificamente tra loro Paesi diversi per storia, cultura, economia e condizioni sociali. 

Un’impresa che il Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009, riassume all’art. 3.3, affermando che l’Unione “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”.

Tanta ambizione e tanta roba, che tutta insieme non è facile realizzare, in particolare in tempi di scossoni politici e di crisi economiche e finanziarie, in un mondo sempre più fuori controllo. 

Non è però un motivo per rinunciare a valutare sommariamente, punto per punto, l’evoluzione dello sviluppo sostenibile nell’Unione Europea, a cominciare da una crescita economica che è certo progredita negli anni, anche se meno che in altri Paesi del mondo e non sempre in modo equilibrato tra le diverse regioni europee, come possiamo constatare anche in Italia.

Meglio è andato, grazie all’opera della Banca centrale europea, il governo della stabilità dei prezzi con il controllo dell’inflazione, non però senza impatti negativi sulla crescita, con l’attivazione da parte dell’UE di quel “Patto di stabilità e crescita” che ha costantemente privilegiato la prima sulla seconda.

Quanto poi a realizzare una “economia sociale di mercato fortemente competitiva” è una sfida non facile da vincere e l’esperienza ci insegna che la dimensione sociale del mercato ha regolarmente fatto le spese della competitività senza peraltro che questa venisse raggiunta quanto auspicato, per un’Europa in ritardo nella competizione internazionale, nonostante un costante allentamento delle regole sociali.

E qui arriviamo al punto centrale di questa provvisoria valutazione: dalla piena occupazione siamo lontani, ancora più lontani siamo da una “sana occupazione” se apriamo gli occhi sull’aumento del “lavoro povero”, sui bassi salari, a fronte del rallentamento del progresso sociale  e la contrazione del sistema di tutele, comprese quelle relative alla salvaguardia ambientale.

E’ in questo scenario che si sta sviluppando in questi giorni un’ambigua campagna di propaganda politica contro i “dazi interni”, che sarebbe più giusto chiamare “regole condivise”, liberamente sottoscritte negli anni con i Trattati UE per promuovere quella “economia sociale di mercato” solennemente invocata dal Trattato di Lisbona citato sopra.

Sotto la pressione dei “dazi esterni”, minacciati da Donald Trump, si sta diffondendo come un virus insidioso un attacco alle regole sociali e ai diritti, conquiste di anni di lotte dei lavoratori e delle forze progressiste sulle quali adesso qualcuno prova a scaricare la responsabilità della mancanza di competitività europea, per dare libero sfogo agli “spiriti animali” del mercato, facendo credere che questo è in grado di trovare un punto di equilibrio rispettoso degli interessi tra tutti i suoi attori, lavoratori, imprenditori e detentori di  capitali. Non è esente da questi rischi anche il “Rapporto Draghi”, molto orientato ad una semplificazione delle regole esistenti che a molti fa temere un loro sostanziale smantellamento.

Per capire dove porterebbe questa strada basta dare uno sguardo a quanto sta capitando oltre-oceano dove gli affari orientano la politica, dove la finanza domina l’economia e dove il lavoro e le persone sono considerate realtà residuali: il tutto per dare vita ad una nuova “stagione d’oro”, con meno regole possibile.

Resta solo da capire in favore di chi e quanto tutto questo rispetti quel “patto fondativo” che è stato sottoscritto nei Trattati europei, anche per capire quale Unione stiamo veramente costruendo.

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