Poca Europa nel futuro della nostra industria automobilistica

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Dopo la conclusione della trattativa per la ripresa dell’Opel, dirà   il futuro – e non bisognerà   nemmeno aspettare troppo a lungo – dove andrà   l’industria automobilistica europea alla ricerca di dimensioni che le consentano di sopravvivere nella competizione mondiale.
Nell’attesa puಠnon essere inutile cercare di capire, nelle intricate vicende delle settimane scorse, chi siano stati gli attori del negoziato, compresi quelli occulti o presenti per interposta persona e, per completare il quadro, quelli che proprio non si sono presentati al tavolo in alcun modo.
Alla Cancelleria di Berlino sono andati in molti, davvero tanti se si considera che l’Opel non ha quote di proprietà   pubblica tedesca. Eppure il tavolo aveva una netta dominante politica, che avrebbe pesato sulla conclusione della trattativa: con la cancelliera Angela Merkel e i suoi ministri, competenti per portafoglio e coinvolti per appartenenza politica alla «Grosse Koalition»oggi al governo e alla vigilia di importanti elezioni politiche, anche i presidenti dei Laender che ospitavano insediamenti dell’Opel .
Tra gli invitati anche un rappresentante dell’amministrazione USA, coinvolta fino al collo nella deriva fallimentare della General Motors, della quale Opel è una branca europea, con insediamenti in Paesi UE (Belgio, Polonia e Spagna), insieme con la Saab in Svezia e la Vauxhall in Gran Bretagna.
Di fronte a questa folta schiera di politici seguiti dai loro numerosi consiglieri, i pretendenti all’asta: il gruppo austro-canadese (con sostegno russo) Magna, l’italiana Fiat, il fondo d’investimento Ripplewood International e, all’ultimo momento, i cinesi del Beijing Automotive Industry Holding (BAIC). Come si vede un intreccio internazionale complesso che chiama in causa gli interessi economici e politici di molti Paesi, tra i quali almeno sei Paesi UE più direttamente coinvolti nelle ricadute occupazionali dell’accordo.
Se questa è, seppure semplificata, la mappa degli interessi politici, viene spontaneo chiedersi dov’erano l’Unione Europea e l’Italia, in particolare, nello svolgimento di questo intricato negoziato. La risposta è semplice: UE e Italia sono state entrambe assenti, anche se con motivazioni e modalità   diverse.
Cominciamo dall’Unione Europea che, dopo un primo scandaloso intervento a gamba tesa del suo commissario all’Industria – a caso, il tedesco Verheugen – contro la prospettiva di una ripresa di Opel da parte di Fiat, ha dovuto essere sollecitata dal governo belga per convocare in extremis una ininfluente riunione dei ministri dell’Industria che si sono limitati ad evocare le loro preoccupazioni per un problema europeo come, di tutta evidenza, è ormai diventata l’industria automobilistica, parte importante di quello che resta dell’industria manifatturiera del continente.
Per dirlo con più chiarezza: l’UE si è ancora una volta rivelata una spettatrice inerte di fronte ad una vicenda decisiva per il suo cosiddetto «mercato unico» e per la sua capacità   di competere sul mercato globale.
Verso il resto del mondo, la Germania ha condotto le danze d’intesa con gli USA (anche se non senza qualche tensione), con uno sguardo a Mosca, alle sue banche e alle prospettive dei suoi approvvigionamenti energetici; al suo interno, con l’occhio puntato sulle elezioni d’autunno e sulla necessità   di salvaguardare la propria occupazione in una congiuntura economica difficile, nel rispetto di quel «modello renano» di un’economia sociale di mercato che si sta riproponendo all’attenzione di molti, tra i quali anche il presidente USA Barak Obama.
La sola attenuante per l’UE è nei gravi limiti che pesano sulla sua responsabilità   in materia di politica economica e la sua permanente debolezza ad affrontare in modo coeso i nuovi sviluppi geopolitici che stanno modificando gli assetti economici del mondo, tanto più sotto la spinta della crisi in corso.
Anche di questo dovremo ricordarci al momento del voto europeo: è indispensabile più Europa, per l’Italia e tutti gli altri Paesi membri, se si vuole stare al mondo senza subire gli interessi degli altri ed affrontare la nuova competizione politica ed economica mondiale che la crisi in corso ha ormai avviato.
E che dire dell’Italia in tutta questa vicenda?
Niente di molto nuovo: dinamica e audace – forse anche troppo – una parte della sua classe imprenditoriale, esitanti e comprensibilmente nervosi i sindacati privi di un’effettiva coesione europea e in tutt’altre faccende affaccendato il Governo, nonostante il suo dichiarato ottimismo – per nulla condiviso dal governatore della Banca d’Italia – sull’evoluzione della crisi, ma del tutto impotente ad intervenire in un negoziato così complesso ed esigente.
Per contare, al tavolo di Merkel sarebbero stati indispensabili per il governo italiano, se mai fosse stato invitato, almeno due ingredienti: la disponibilità   di adeguate risorse finanziarie per sostenere una fusione costosa e un ben altro tasso di affidabilità   politica rispetto a quello che questo governo dimostra ogni giorno, a cominciare dal suo presidente del Consiglio.
In una stagione dell’economia ispirata a nuovi equilibri tra Stato e mercato, il negoziato a forte dominante politica di Berlino si è concluso con il rifiuto del piano «solo» industriale della Fiat , non sorretto nà© da adeguati sostegni finanziari – largamente ricevuti in passato ma irreperibili oggi con l’attuale montagna del debito pubblico italiano – nà© dall’affidabilità   politica del Governo italiano.
àƒÆ’à¢â‚¬° molto probabile che pensando all’Italia, a qualche negoziatore sia venuto in mente come traducevano un tempo gli americani la sigla Fiat: «Fix It Again, Tony» («riparala ancora, Tony»).
Dopo la fusione con Chrysler, adesso gli americani della Fiat questo non lo dicono più: chissà   se un giorno potranno cambiare idea anche a proposito di questo nostro Paese e dei suoi governanti?

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