Palestina: diario di un viaggio fra muri e filo spinato

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A pochi giorni dalla fine della guerra a Gaza, sulla quale si sono ormai spenti quasi tutti i riflettori della stampa e dell’informazione, ho avuto l’occasione di partecipare ad un viaggio -«pellegrinaggio» di una settimana organizzato da Pax Christi in Palestina. Un viaggio che aveva come obiettivo principale quello di andare a vedere e capire, al di là   dell’informazione che ci giunge (o non giunge) in Europa, cosa sta succedendo in quella terra, percorsa ormai da più di 60 anni da violenze, guerre, reciproche paure, occupazioni e, infine, da un impossibile dialogo fra israeliani e palestinesi.
Ciಠche ho visto ha superato di gran lunga le mie giࠠ solide inquietudini al riguardo, riportando le riflessioni sul processo di pace al massimo livello di urgenza se non si vuole assistere ad un vero e proprio annientamento del popolo palestinese.
Nel percorrere gran parte della Cisgiordania e Gerusalemme, il nostro viaggio si è snodato attraverso muri di cemento e di separazione alti 8 metri, check points israeliani umilianti e rigidi, chilometri di filo spinato per proteggere l’avanzare deciso e inarrestabile degli insediamenti dei coloni israeliani che, in questo folle disegno, controllano i due elementi più significativi di sopravvivenza: l’acqua e l’elettricità  . Di conseguenza, il viaggio ha svelato tutta la sofferenza di un popolo palestinese che si vede sottrarre a poco a poco la propria terra, costretto a sopravvivere fra la paura del severo controllo militare israeliano e delle sue armi, l’inarrestabile degradazione delle condizioni di vita, una chiara negazione di speranza nel futuro dei figli e soprattutto, una violazione sistematica dei più elementari diritti fondamentali dell’uomo.
Un viaggio quindi nella disperazione del popolo palestinese, dove l’elemento che interpella di più è quello della giustificazione, troppo spesso veicolata dai media, della sicurezza di Israele. Una giustificazione che ci è apparsa in tutta la sua contraddizione, perchà© proprio questa strategia non ha altro scopo che quello di aumentare l’insicurezza, di alimentare l’odio e il risentimento fra i due popoli, di bloccare irreversibilmente un dialogo di pace e, in ultima analisi, di cancellare, sul lungo termine, la presenza palestinese. Prospettiva quest’ultima tutt’altro che fantasiosa, visto l’atteggiamento israeliano a non riconoscere nemmeno la parola «palestinese», volutamente trasferita in un generico e poco rispettoso richiamo ad «arabo». E non ci rassicura certo, al riguardo, il risultato delle ultime elezioni in Israele, che ha portato alla vittoria un’estrema destra aggressiva e intransigente come non si era mai visto in passato e che ha puntato soprattutto sull’esigenza di sicurezza e sulla giustificazione della sua violenza. Ce lo ricorda purtroppo il recente intervento militare a Gaza, che ha lasciato dietro di sà© più di 1500 morti, di cui 400 bambini, e oltre 5500 feriti.
In questo viaggio, a volte veramente difficile nei suoi aspetti di crudele faccia a faccia con una realtà  , spesso ignorata e senza voce, ho cercato qualche segno di speranza. L’ho trovato negli incontri con i responsabili di associazioni palestinesi che lottano per i diritti umani e per una soluzione non violenta del conflitto; l’ho trovato nei campi profughi, nella dignità   e nell’impegno di tante persone costrette a viverci dal 1948 o dal 1967 in condizioni disumane; l’ho trovato nell’impegno profondo di Pax Christi ad affiancare queste associazioni e a portare le loro voci all’attenzione della comunità   internazionale e l’ho trovato anche nell’incontro con alcuni israeliani pacifisti che non possono accettare, con coscienza, una simile strategia politica da parte del loro governo. A prima vista una resistenza che non puಠreggere di fronte alla complessa, forte e determinata macchina israeliana, ma che, proprio per questo, assume un altissimo valore di coraggio e di non rassegnazione.
Questo viaggio di conoscenza è stato infine e soprattutto un viaggio di assunzione di responsabilità   personale e collettiva: una conoscenza che non puಠpiù giustificare l’ignoranza di un dramma che si svolge, senza troppo rumore e con costanza negli anni, alle frontiere immediate dell’Europa.
Ed è all’Europa in particolare, con i suoi valori fondanti di pace, di democrazia e di rispetto dei diritti dell’uomo, che va rivolto un appello senza ambiguità   perchè si riavvii al più presto un negoziato di pace. Un negoziato che, col passare del tempo, non puಠche diventare sempre più difficile visto l’evidente non rispetto delle risoluzioni dell’ONU da parte di Israele. Ma l’Europa ha anche il dovere di chiarire i suoi rapporti bilaterali con Israele. L’Accordo di associazione, entrato in vigore nel 2000, impegna infatti l’Unione europea e Israele a basare le loro relazioni sul rispetto dei diritti dell’uomo e dei principi democratici.
Diritti dell’uomo e principi democratici che sono oggi particolarmente in pericolo in quel che resta della Palestina.

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