Mondiali di calcio e rispetto dei diritti

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In Qatar sono stati, per i tanti tifosi del calcio nel mondo, giorni condivisi di ansia, di attesa, di gioia e tristezza, di orgoglio nazionale e spesso anche di riscatto. In uno scenario sfarzoso e dorato, quasi da mille e una notte, non sono tuttavia e giustamente mancati, ben prima che le competizioni iniziassero, dubbi e proteste per il prezzo pagato in termini di non rispetto dei diritti umani, di sfruttamento del lavoro, di vite spezzate sulle impalcature degli stadi in costruzione. 

Non sono mancati nemmeno durante le competizioni i tentativi, da parte dei giocatori, di riportare anche sul campo da gioco l’attenzione ai diritti e alla libertà di espressione, tentativi senza apparente successo, vista l’intransigenza, al riguardo, non solo del Qatar, Paese organizzatore, ma anche della FIFA (Federazione Internazionale del Calcio). 

Sono state eloquenti le iniziative, ad esempio, della squadra tedesca, la quale, vedendosi vietare l’uso di una fascia arcobaleno al braccio per dimostrare l’importanza dei diritti e il rispetto della diversità, ha posato per la foto finale con la mano sulla bocca. Non meno significativo e  doloroso il segnale inviato dalla squadra dell’Iran, che alla sua prima partita giocata contro l’Inghilterra, si è astenuta dal cantare l’inno nazionale. Un gesto importante ma immediatamente  censurato e condannato dal Governo iraniano, rivelando nei giocatori e negli spettatori tutta la tristezza e la sofferenza di un popolo che lotta per diritti e libertà.

In questo grande appuntamento dello sport in Qatar, con tutte le sue esasperazioni delle identità nazionali, ha destato particolare interesse la squadra del Marocco, “i leoni dell’Atlante”, che hanno fatto fremere di gioia e di orgoglio, fino ai quarti di finale e a quella vittoria contro il Portogallo, non solo un popolo, ma un intero continente, l’Africa, e in particolare tutto il mondo arabo. Scene di gioia sono state registrate ovunque, da Rabat ad Algeri, dal Cairo a Bagdad, da Tunisi a Damasco e altrove, in segno di una ritrovata e momentanea fratellanza  in una regione caratterizzata non solo da divisioni e conflitti  ma anche da una ricerca, in tante popolazioni, di più diritti e libertà. Il ricordo delle primavere arabe, anche se solo un lontano ricordo, ha lasciato segni riconoscibili e voglia di una comune vittoria. 

Ma il momento che ha segnato più di tutti quel fruscio di orgoglio e di fratellanza è stato senza dubbio il gesto della squadra marocchina, alla sua prima partita vinta, di sventolare una bandiera dimenticata, quello di uno Stato che non esiste e che non ha una nazionale di calcio: la bandiera della Palestina. Un gesto che ha incoraggiato gli animi, che ha fatto di quella bandiera, sventolata poi un po’ ovunque, il richiamo alla situazione di un popolo che non ha più voce per reclamare un condiviso e giusto negoziato di pace con Israele.  Una bandiera diventata a Doha simbolo di unità e resistenza. 

Non solo, ma la solidarietà emersa in Qatar nei confronti della Palestina è anche simbolo di un’opinione pubblica araba che si esprime al riguardo, che non ha dimenticato e che non è necessariamente in linea con il silenzio dei rispettivi Paesi nei confronti di un popolo “fratello”.  Un aspetto di questo mondiale di calcio che non va sottovalutato perché si è trattato anche di un richiamo alle responsabilità dell‘intera comunità internazionale.

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