La lezione del referendum irlandese

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Ancora una sorpresa e tutt’altro che bella per l’Europa. L’Irlanda, chiamata con un referendum ad esprimersi sul Trattato di Lisbona, ha detto «no» e adesso tutto diventa più difficile. Intanto perchà© questo rifiuto va ad aggiungersi a quello già   espresso dagli stessi irlandesi al Trattato di Nizza e a quelli della Danimarca al Trattato di Maastricht e della Francia e dell’Olanda al progetto di Costituzione europea. Difficile la situazione lo è anche perchà© ancora fragile è il processo di integrazione nell’UE a 27 e perchà© siamo nel pieno di una crisi economica e finanziaria che esigerebbe dall’Europa una forte coesione, mentre il rifiuto irlandese traduce un sentimento diffuso di egoismi nazionali e di ripiegamenti localistici indotti dalla paura di una globalizzazione che dovrebbe invece essere affrontata con larghe intese sovranazionali.
Ma andiamo con ordine e soffermiamoci sul «caso» Irlanda, consapevoli che sul tema bisognerà   tornare, anche per meglio valutarne le conseguenze a mente fredda, in particolare dopo il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo chiamato a prendere posizione sull’argomento.
La vicenda irlandese nell’UE è nota: entrata nella Comunità   europea nel 1973 l’Irlanda, allora il Paese più povero dei nove che ne facevano parte, ha conosciuto in questi anni uno sviluppo che ha del miracoloso, ma anche in gran parte spiegabile con la solidarietà   europea: non solo quella dei 55 miliardi di euro messi a disposizione da Bruxelles, ma più ancora grazie ai vantaggi di una grande economia di scala, qual è il mercato unico europeo, di cui non avrebbe potuto approfittare un Paese come l’Irlanda il cui Prodotto interno lordo (PIL) rappresenta un modesto 1% dell’economia comunitaria.
Allora ingrata l’Irlanda del «prendi i soldi e scappa» che ha detto «no» al Trattato di Lisbona, senza il quale l’UE rischia adesso di piombare in una crisi politica e istituzionale proprio nel bel mezzo di una crisi economica e finanziaria mondiale? A parte che in politica la variabile «gratitudine» sembra poco influente, come dimostrano anche vicende nostrane, la spiegazione è troppo superficiale e comunque insufficiente. Per questo sarebbe bene approfondire la lettura del rifiuto irlandese e cercare di capire meglio le ragioni del «no» e trarne una lezione per atteggiamenti anti-europei che vanno crescendo un po’ ovunque, Italia compresa.
Uno dei temi sensibili resta quello della sovranità   nazionale che il Trattato di Lisbona è accusato di mettere a rischio, come sembrano pensare molti anche nel Regno Unito, in Paesi di nuova adesione e persino in Germania dove, sull’argomento, è attesa una sentenza della Corte costituzionale. Che oggi in Europa si assista ad una regressione in senso «nazionalista» o, peggio, localista è sotto gli occhi di tutti. Se poi su questo, paure di varia natura innestano deliri di identità   da proteggere o da restaurare allora la miscela diventa esplosiva e tutt’altro che da sottovalutare.
Se perà², come è stato detto, «l’identità   non è nel soggetto ma nella relazione» e la sovranità   in questo mondo globale è nell’interdipendenza tra Stati sovrani alla ricerca di una più ampia sovranità   condivisa, allora l’Europa non dovrebbe essere vista come una minaccia ma, al contrario, come una risposta alla minaccia.
Ma tutto questo andrebbe spiegato meglio ai cittadini, sia svelando loro quell’oscuro e complesso Trattato di Lisbona, ignoto ai più, e sia mostrando l’utilità   delle – ancora troppo poche – politiche comuni o condivise nell’UE e illustrando puntigliosamente quali sarebbero oggi e potrebbero essere domani, per gli irlandesi come per gli italiani e tutti gli altri, i costi pesantissimi della non-Europa.
Sulla conoscenza del Trattato di Lisbona vale quanto si è ampiamente ripetuto per il defunto progetto di Costituzione europea, di cui questo Trattato è un po’ una brutta copia: un tema destinato ad una forma singolare e persistente di «clandestinità  ». Ad oggi il Trattato è stato ratificato da 18 Paesi, senza che l’opinione pubblica europea se ne sia accorta più di tanto. In Italia dovrebbe andare in Parlamento il mese prossimo, sempre che le divisioni già   esplose nella maggioranza alla notizia del «no» irlandese» non provochino rinvii.
Sul tema non si è praticamente visto traccia di dibattito in Europa e anche da noi non se ne parla più di tanto. A parte la manovra diversiva della Lega che invoca un referendum per salvaguardare l’identità   della Padania e cogliere l’occasione per modifiche alla nostra Costituzione (dimenticandone il dettato fondamentale contenuto nell’articolo 11), il restante mondo politico non sembra affannarsi su un tema così poco caro alle dimensioni «provinciali» del nostro dibattito politico. Che poi la ratifica avvenga nel caldo luglio romano quando tutti si preparano alle vacanze farà   il resto per oscurare l’argomento.
Eppure ci sarebbero oggi molte ragioni per riflettere ed inquietarsi sugli eventuali costi della non-Europa: basta pensare che cosa ci sarebbe successo senza l’argine dell’euro, che cosa ci aspetta se non riusciremo tutti insieme a condividere una politica comune dell’energia e della ricerca, se non troveremo insieme una risposta alla crisi alimentare in corso e una soluzione equa al gran disordine del commercio mondiale. E la lista sarebbe ancora lunga, ma da noi c’è chi preferisce accanirsi a proteggere con un prestito-ponte l’»italianità  » di un’azienda decotta come l’Alitalia, a interpretare il tema della sicurezza come una riduzione di diritti oggi per gli immigrati, domani per i rom fino a quando toccherà   anche agli italiani-italiani.
Insomma, dopo il dirompente «no» irlandese, anche il nostro Paese qualche riflessione dovrebbe farla. Magari per tenersi pronto, quando si formeranno le avanguardie di chi in Europa vuole andare avanti, a scegliere con chi stare e a valutarne tutte le conseguenze.

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