Era il 16 settembre 2022, esattamente due anni fa, quando una giovane donna iraniana, Masha Amini, moriva per mano della polizia morale a Teheran. L’accusa era semplicemente quella di portare l’hijab in modo scorretto, lasciando fuoriuscire una ciocca di capelli.
E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha innescato una spirale di proteste che ha attraversato tutto il Paese, coinvolgendo non solo le donne, ma la società intera, in un dissenso popolare mai raggiunto fino a quel momento.
Non era infatti la prima volta che nei quarantacinque anni di Repubblica Islamica scoppiassero proteste e richieste di riforme sociali ed economiche, ma non raggiunsero mai una tale dimensione e intensità.
Nacque in quel giorno il movimento “Donne, vita, libertà”, un grido di denuncia di quei regimi teocratici e autoritari che annullano la vita, i diritti e il futuro delle donne di un intero Paese. E’ stato un movimento che si è esteso oltre le frontiere dell’Iran, raccogliendo sostegno e adesioni in varie parti del mondo per denunciare la drammatica situazione delle donne di quel Paese
Ad oggi, in Iran, il movimento non ha perso vigore, anche se continua a pagare un prezzo molto alto in termini di violenze, di arresti, di imprigionamenti, di torture, di processi iniqui e di condanne a morte. E tutto questo in un cima di sistematica impunità ai sensi del diritto internazionale.
Al riguardo riportiamo qui l’appello dal carcere del Premio Nobel per la pace 2023, Narges Mohammadi, giovane attivista per il rispetto dei diritti umani e contro l’oppressione delle donne in Iran, in cui invita le Istituzioni internazionali e le persone in tutto il mondo ad agire e a non limitarsi ad osservare: ”Esorto le Nazioni Unite a porre fine al loro silenzio e alla loro inazione di fronte alla devastante oppressione e discriminazione da parte di governi teocratici e autoritari nei confronti delle donne, criminalizzando l’apartheid di genere. (…) La liberazione delle donne dalla morsa dell’oppressione e della discriminazione è essenziale per potenziare la forza che guida la pace e la democrazia”.
Non molto dissimile, se non ancora più tragica si rivela essere la situazione delle donne in Afghanistan, a tre anni di distanza dalla ripresa del potere dei Talebani e il cui leader supremo porta il nome di Hibatullah Akhundzada.
In un lungo, pesante e unico codice di nuove e vecchie norme, adottato e pubblicato il mese scorso, i talebani puntano a rendere invisibili e senza voce le donne. A loro è imposto di indossare il burqa, già in vigore dal 2022, e nuove norme impongono loro il silenzio in pubblico, vietano di ascoltare o suonare musica. Donne e ragazze sono escluse dalla vita pubblica, dall’istruzione e dalle cure mediche, dall’accesso ad ogni forma di impiego retribuito, senza contare la totale sottomissione all’uomo e le pene inflitte per l’adulterio o l’omosessualità.
In questo clima di “apartheid di genere”, finalizzato a “prevenire il vizio e promuovere la virtù” e parte di un più lungo processo di reislamizzazione della società, alcune cifre ci dicono la profonda sofferenza delle donne: sono 3 milioni le studentesse delle scuole superiori escluse dalle classi; 12 anni è l’età oltre la quale l’istruzione femminile è sospesa e una bambina su quattro soffre di depressione.