G20 Afghanistan: “esserci o non esserci, questo è il problema”

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Nei giorni scorsi, la tragedia di William Shakespeare e la commedia di Nanni Moretti hanno fatto da sfondo al G20 straordinario voluto da Draghi il 12 ottobre scorso. Il primo, con l’interrogativo di Amleto: “essere o non essere, questo il problema”, metteva a nudo il dramma profondo dell’umanità di fronte alla sofferenza; il secondo, sul protagonismo di umani troppo umani, provava a scherzarci su, con preoccupata  serietà, chiedendosi nel film “Ecce bombo”: “Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.

Il G20 straordinario sulle risposte da dare alla tragedia dell’Afghanistan e alla crisi umanitaria incombente si è giocato prima sulle partecipazioni e poi sulle decisioni da prendere, due obiettivi entrambi importanti e tra loro collegati.

Nel caso delle partecipazioni si trattava di esplorare lo stato di salute del multilateralismo, messo in crisi dalla presidenza Trump e ancora da chiarire con Biden, e di testare il posizionamento dei principali attori mondiali sulla possibile evoluzione politica nei rapporti con il nuovo governo talebano. Per semplificare, il problema era la partecipazione di Cina e Russia, due potenze a diverso titolo particolarmente interessate, anche per la loro posizione geografica, ai futuri rapporti con i nuovi padroni dell’Afghanistan. Alla fine, per riprendere il tormentone di Moretti, sono venuti e se ne sono stati in disparte Putin e Xi Jinping, assenti personalmente e rappresentati da loro delegati. Un segnale chiaro di presa di distanza dal concerto multilaterale, privilegiando invece un dialogo regionale come proposto dalla Russia, circoscritto ai Paesi dell’area immediatamente interessata, con la partecipazione di Afghanistan, Cina, Pakistan, Iran e India. 

All’incontro virtuale del G20 straordinario erano invece presenti i Paesi occidentali, Stati Uniti, Canada e Paesi UE, con cultura multilaterale che, allo stato, sarebbe più corretto chiamare “plurilaterale”. Con i Paesi UE erano rappresentate anche le Istituzioni europee, in particolare la Commissione nella persona della sua presidente, Ursula von der Leyen, che ha annunciato di destinare un miliardo di euro all’Afghanistan e ai Paesi vicini, questi ultimi da aiutare nel tentativo di raffreddare probabili flussi di migranti trattenendoli nei Paesi limitrofi dell’Afghanistan. 

Risorse certamente importanti, cui si aggiungono i 300 milioni di dollari degli USA, ma insufficienti a sanare una situazione disastrosa per un Paese in macerie, con 5,5 milioni di sfollati (su 38 milioni di abitanti), per il 40% dipendente da aiuti esterni, il 78% dell’energia proveniente dai Paesi vicini e il 30% di inflazione. 

Alle minacce di una crisi umanitaria di straordinarie dimensioni si aggiungono quelle di un terrorismo in agguato, mentre resta irrisolto il problema del riconoscimento o meno del nuovo regime, cui sembrano già strizzare l’occhio Cina e Russia.

Sul tema l’UE è riservata, in attesa di misurare le politiche concrete dei talebani, ma bisogna con urgenza trovare il modo di sostenere la popolazione, per ora avvalendosi dei canali ONU, del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale, che non sempre sono una garanzia di efficace distribuzione delle risorse. Un problema che non sfugge alla stessa ONU, consapevole che il 72% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e rischia di precipitare al 97%.

Apprezzabile in questo contesto l’intervento dell’Unione Europea la cui “generosità” però non basta per ritagliarsi un ruolo di protagonista politico in un’area del mondo contesa tra le grandi potenze. Per “esserci” non basta apparire sugli schermi del G20, bisogna anche che le risorse finanziarie si accompagnino ad una coesione politica interna e a una politica estera e di difesa europea comune.  

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