Europa del calcio o un calcio all’Europa?

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Un coro di proteste ha accolto il tentativo di creare in Europa una Super Lega destinata a raccogliere una dozzina delle più importanti squadre di calcio (per l’Italia ancora in pista Milan e Juventus) per un torneo di “eccellenza”, grazie a concentrazioni di capitali finanziari destinati prima a ripianare gli imponenti debiti accumulati in anni di spese e ingaggi folli e poi ad assicurare futuri profitti, se possibile almeno altrettanto folli. Per capire come i profitti siano stati il nucleo centrale della vicenda basta guardare quanto abbia subito brindato la Borsa e quanto vi abbiano investito grandi potenze finanziarie.

Lasciamo ai tifosi, e in particolare a quelli delle squadre “non-eccellenti” tagliate fuori dal mega-business, e agli addetti ai lavori continuare a dibattere ancora sul tema, anche perché sarà bene non abbassare la guardia con gente così pronta al golpe sportivo. Intanto una lezione è già arrivata dal mondo della politica, in Europa e in Italia.

Le prime reazioni sono venute dal presidente francese Emmanuel Macron, dal premier britannico Boris Johnson e da quello italiano, Mario Draghi concordi nel contrastare l’operazione, come lo sono state le Federazioni europee del calcio esistenti e quelle nazionali.

Quello che si profilava all’orizzonte politico europeo era, per stare nel tema, una partita tra ricchi e poveri, con la prospettiva di ritrovarci a discutere di Europa a più velocità, una lenta e una veloce, una redditizia e una per gli altri, con gli avanzi.

Significativa che alcuni primi commenti abbiano subito evocato qualcosa del genere. Come nel caso di un audace commentatore per il quale “La Super Lega accelera il processo di integrazione europea più della politica…E’ l’inizio di un percorso che porterà a sentire come naturale la dimensione sovranazionale. Passando dal campo prima che dai parlamenti e dai burocrati”. 

La risposta dell’Unione Europea non si è fatta aspettare, manifestando tutte le sue perplessità e cercando di raffreddare lo scontro in atto, per evitare il rischio di una spaccatura, non solo all’interno del mondo del calcio e tra i tifosi, ma anche all’interno di una società europea plurale e orgogliosa delle sue molte identità, non solo a livello nazionale ma anche nelle sue articolazioni locali. 

Già soltanto aspettarsi dal calcio miliardario un rilancio dell’integrazione la dice lunga sulle diverse visioni di Europa, tra quanti pensano di costruirla con la leva della finanza e del profitto, aggregando i Paesi “forti”, e quelli che lavorano da anni per farla crescere con la presa di coscienza dei suoi cittadini, non sugli spalti degli stadi o davanti alla TV, ma nella vita quotidiana, componendo conflitti e alimentando dinamiche di coesione nei luoghi della democrazia, rappresentativa e partecipativa, e non nelle segrete stanze degli affari miliardari, dove si incoraggia un gioco all’esclusione.

Di questo passo sarebbe diventato normale, sulla scorta delle classifiche calcistiche, riprodurre classifiche tra Paesi, in base a risultati economici considerati alla stregua di differenze reti e degli incassi di ciascuno. Non un buon auspicio per il futuro dell’Unione Europea, alle prese con l’urgenza di rafforzare la propria sovranità nel rispetto della pluralità di tutte le sovranità nazionali, così come è cresciuta la dimensione europea del calcio facendo posto a tornei dove vince il più bravo e dove le nazionali non selezionano i loro giocatori in base all’ingaggio, ma con il criterio di chi ha testa e piedi buoni. Talenti che si possono trovare anche in Bulgaria o in Estonia e non solo in Italia e Spagna, anche perché il calcio è bello quando il Crotone, ultimo in classifica, ferma la Juventus o quando il  “modesto” Leicester City diventa campione nella Premier League inglese, asfaltando gli spocchiosi primi della classe.

Così l’autogol dei miliardari del calcio è diventato una buona notizia per l’Unione Europea che resta un progetto di convivenza di popoli diversi, da costruire con la pazienza richiesta da un percorso di progressiva integrazione, senza fuochi d’artificio e senza farsi trainare da improbabili miliardari.

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