E adesso, quale Europa?

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Abbiamo tutti mandato un messaggio all’Europa, anche quelli che si sono astenuti e che sono stati i più numerosi. Da loro forse il messaggio più importante: la sfiducia nella politica, più ancora in quella nazionale che non nelle Istituzioni europee, come hanno rilevato ricerche recenti. È lì il primo problema che l’Europa deve affrontare: rafforzare la democrazia, riaffezionare i suoi cittadini alla loro vita collettiva, consentirne la partecipazione ai processi decisionali, cominciando dalla conoscenza del lavoro delle Istituzioni, delle loro responsabilità, di quelle nazionali e di quelle europee.

Alla fine della sua vita, Jean Monnet, l’architetto delle prime Comunità, confessò che se avesse potuto ricominciare, avrebbe cominciato dalla cultura. Adesso ricominciare tocca a noi, a partire dalla cultura. Anzi, meglio: dalle culture, quelle che fanno la ricchezza dell’Europa, sue croci e delizie, necessarie per non disperdere uno straordinario patrimonio di civiltà e difficili da rispettare e governare verso un’Unione sempre più stretta dei molti popoli che la compongono. Non con la creazione di un super – Stato – talmente sono già imbalsamati i singoli Stati che la compongono – ma una Comunità di persone la cui identità risiede nella capacità di far convivere identità diverse, in una realtà oggi già multiculturale chiamata a dare vita a una Comunità interculturale, che consenta di dialogare nel rispetto dei diritti e doveri di tutti.

Per raggiungere questo obiettivo ci vorranno tempo e nuove regole. Il tempo a disposizione, prima che il tessuto civile logoratosi in questi ultimi tempi si disgreghi, non è infinito: bisogna ripartire subito, sfruttando tutte le potenzialità dei Trattati esistenti, riformandone le parti impraticabili (come nel caso dello sciagurato “Fiscal pact”) e mettendo in cantiere un nuovo Trattato, meglio ancora se sarà una nuova Costituzione.

Le priorità sono note: una politica estera e di sicurezza comune, accompagnata da una politica comune per l’immigrazione e l’asilo, una progressiva armonizzazione fiscale per impedire competizioni fraudolente tra i Paesi, un governo comune dell’economia, a sostegno della crescita e del lavoro, che affianchi una politica monetaria lasciata pericolosamente sola, politiche comuni della ricerca, dell’energia e dell’ambiente e un rafforzamento di pratiche democratiche, tanto di natura rappresentativa che partecipativa. E per non fare “le nozze con i fichi secchi”, una revisione del bilancio comunitario non impiccato a un misero 1% della ricchezza europea.

Per fare tutto questo ci vuole molto di più di una semplice manutenzione delle Istituzioni comunitarie e di un rafforzamento delle politiche esistenti. Ci vorranno anche leadership capaci di guardare al futuro, di ritrovare il coraggio dei Padri fondatori e di costruire alleanze coerenti tra famiglie politiche diverse, ma alla ricerca di “più Europa”, e tra Paesi determinati a progredire verso un’Unione politica europea.

L’Italia, dopo il voto di domenica, ha una grande responsabilità: nel dare all’UE nuovo slancio nel suo semestre di Presidenza, che è anche quello della definizione dei nuovi vertici istituzionali europei e nel progettare una nuova Unione sul medio – lungo periodo. A Bruxelles, Renzi non ha perso tempo e ha chiesto che prima ci si accordi sulle cose da fare e solo dopo sui nomi cui affidare le nuove responsabilità istituzionali: se non è solo tattica, ma una scelta rigorosa di metodo, la strada è quella giusta. L’Italia qualche nome di rilievo da proporre lo ha (uno fra tutti, Enrico Letta), senza strafare ma anche senza andare a Bruxelles con il cappello in mano.

Senza dimenticare che sarà probabilmente dai Paesi dell’euro che si staccherà un gruppo di testa deciso ad accelerare, lo guiderà probabilmente la Germania, reduce da una leadership franco – tedesca logorata da tempo e adesso messa in crisi dal pessimo risultato francese. Senza la pretesa di sostituirvi un asse italo – tedesco, l’Italia ha un’occasione d’oro per guadagnare ruolo e influenza, a patto di diventare un Paese affidabile, che si lascia alle spalle le disinvolture di un lungo ventennio disgraziato. Ma l’Italia non è solo il suo governo, sono prima di tutti i suoi cittadini, da loro dipenderà molto del futuro dell’Europa.

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