E adesso l’allargamento va stretto all’Europa

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Un anno fa l’Unione europea decideva con coraggio di procedere a grandi passi sulla strada del suo ampliamento verso Est, dopo aver constatato che lo storico allargamento del 1° maggio 2004 ai Paesi usciti dall’inverno sovietico non solo non aveva provocato sconquassi, ma evolveva gradualmente verso una positiva integrazione. La decisione nell’ottobre del 2005 di aprire da un lato alla Croazia, primo passo per l’allargamento a tutti i Paesi balcanici, e dall’altro alla Turchia, non fu presa alla leggera: vi era consapevolezza non solo di che cosa tale gesto significasse e di quali problemi fosse portatore, ma anche delle resistenze presenti nell’opinione pubblica europea all’indomani del «No» francese e olandese alla Costituzione europea e del clima di crescente tensione che si andava profilando tra le due sponde del Mediterraneo.
Ma in un anno molte cose sono cambiate e non in positivo: in alcuni importanti Paesi che ci avevano raggiunto nel 2004 – tra questi Polonia, Slovacchia e Ungheria – è cresciuta l’instabilità   politica e con essa l’avversione al progetto di integrazione europea; il conflitto israelo-libanese ha dato fuoco alle polveri in un Mediterraneo già   sotto tensione, dando fiato alle pretese egemoniche di Iran e Siria nell’area.
Tutto questo, ed altro ancora, non poteva non incidere negativamente sui negoziati avviati un anno fa in vista dell’allargamento dell’Ue verso sud-est, e in particolare con la Turchia.
Per la verità  , le trattative con la Turchia l’Europa le aveva avviate quarant’anni fa alla ricerca di un’area di libero scambio, sviluppatasi nel frattempo al punto da condurre ad una concreta prospettiva di adesione. Accedere a questa prospettiva voleva dire non solo ampliare il mercato europeo e posizionarlo sul nuovo vettore di sviluppo verso l’Asia, ma anche e soprattutto dichiarare una chiara volontà   di dialogo tra Occidente ed Oriente a fronte della crescente tensione tra le rispettive culture, mentre non finisce di aggravarsi il conflitto iracheno. A sua volta la Turchia aveva rilanciato le sue riforme interne per avvicinarsi all’Europa e le si era associata nell’impresa rischiosa di inviare una forza multinazionale di interposizione in Libano.
Ma mentre tutto questo operava in favore di un ravvicinamento, Israele da una parte, Iran e Siria dall’altra, mantenevano alta la tensione nell’area ed ogni pretesto era buono per eccitare gli animi. Dal discorso del Papa a Ratisbona alla minaccia nucleare nord-coreana, le occasioni erano ghiotte per intrecciare complicità   e dar fiato a fondamentalismi non solo religiosi ma anche politici. Se poi a questo si aggiungono le provocazioni del Parlamento francese sul riconoscimento del genocidio armeno come condizione per l’ingresso della Turchia nell’Ue, le resistenze in Germania di Angela Merkel e le paure crescenti nelle nostre società   largamente multietniche di fatto ma tuttora fortemente nazionaliste e localiste nelle convinzioni profonde dei loro cittadini, allora la miscela è praticamente pronta per ostacolare le sempre più timide volontà   di dialogo.
L’evoluzione delle sensibilità   espresse dalle opinioni pubbliche non lascia dubbi: nel 2004 già   solo il 30% i cittadini dell’Ue era favorevole all’adesione della Turchia, oggi sono solo più il 21%. Movimento analogo in Turchia dove i contrari all’adesione all’Ue sono saliti in due anni dal 9% al 22%. Più inquietante ancora: nello stesso periodo coloro che in Turchia guardavano con simpatia verso l’Europa sono passati dal 52% al 45%, mentre è cresciuta la simpatia verso l’Iran, passata dal 34% al 43%. Per chi ha occhi per vedere non è difficile intuire la direzione in cui sta andando il dialogo o lo scontro tra civiltà  .
Non migliora la situazione il rapporto che l’Unione europea ha presentato sullo stato di avanzamento dei negoziati di adesione: punti caldi quali la questione cipriota, il rallentamento delle riforme, il rispetto dei diritti umani e la soppressione della tortura, mettono la Turchia sotto accusa, rendendo più difficile il dialogo. In questo clima va valutato anche l’annuncio del Governo di Ankara sul mancato incontro tra il Premier turco e il Papa in occasione della visita in Turchia a fine novembre.
Come si vede è in atto una deriva pericolosa, a cui sarebbe imperdonabile rassegnarsi. In questo senso bene sta operando il Governo italiano, che dopo aver fatto pressioni qualche tempo fa per non ritardare il processo di adesione nei Balcani, adesso insiste per tenere aperta la porta verso la Turchia. Valga come monito una recente dichiarazione del ministro degli Esteri italiano: «E’ chiaro che c’è un clima generale di crescente ostilità   tra Occidente e Islam. Questo ci deve preoccupare, e molto. Noi non abbiamo una percezione esatta del disastro che è successo in questi anni. Siamo sull’orlo di una tragedia: la crescita del fondamentalismo e dei sentimenti anti-occidentali è ovunque, dall’Egitto alla Giordania ai Paesi del Maghreb: non solo in Turchia. Siamo di fronte ad un rischio drammatico. Anche per questo bisogna correre ai ripari».
àˆ una citazione un po’ lunga, ma in compenso ogni commento è superfluo.

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