Diritti, doveri e privilegi

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È dura la vita dei diritti nella stagione delle diseguaglianze. Vale a livello collettivo, tra gli Stati, e a quello individuale, per le persone.

Vi fu un tempo in cui lo Stato nazionale poteva considerarsi un regolatore sovrano, in grado di governare una comunità relativamente omogenea e riconoscere uguali diritti e doveri ai suoi cittadini. Non che questa condizione sia sempre stata sfruttata compiutamente: antichi privilegi sopravvissero, ma si fece strada la necessità di definire uno zoccolo duro di diritti universalmente riconosciuti, anche se da declinare nelle diverse situazioni che gli Stati dovevano affrontare. Non è un caso se un documento fondamentale in materia sia la “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948, lo stesso anno in cui entrò in vigore la Costituzione italiana che all’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, aggiungendo all’articolo 4 che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Sarebbe utile rileggere queste poche righe per indurre ad una riflessione quanto più serena possibile sul tema, oggi di nuovo incandescente, dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, già molto indebolito solo due anni fa dalla riforma Fornero e di nuovo in corso di riforma in questi giorni. Vi è chi invoca in proposito l’età avanzata di quello Statuto, un argomento evocato spesso anche a proposito della Costituzione: per costoro vale la saggia considerazione del nostro Manzoni, secondo il quale “non tutto quello che viene dopo è meglio di quanto c’era prima”. Il tema è ripreso anche nella più recente “Carta dei diritti dell’Unione Europea”, all’articolo 30, sulla “Tutela in caso di licenziamento ingiustificato: ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”. Un dettato che si è tradotto in Europa in una molteplicità di norme, compreso il diritto al reintegro, seppure a condizioni e con procedure diverse, non essendo questa una materia di competenza UE.

Più pertinenti sembrano le considerazioni sulle mutate condizioni del lavoro in un mondo globalizzato e in un’economia senza frontiere, segnata periodicamente da crisi profonde, e anche molto lunghe come l’attuale. Considerazioni che inducono a declinare quei diritti con i corrispondenti doveri di solidarietà, anche da parte dei lavoratori “garantiti”, perché diventi per tutti “effettivo” il diritto al lavoro. Diritti e doveri stretti oggi nella tenaglia di una crisi che ha creato in Europa milioni di senza lavoro e di un mondo dove molti incrementi di competitività si realizzano a spese di un progressivo decremento dei diritti. Bisognerà declinare in questa situazione diritti e doveri dunque, ma non a rischio di un loro declino, che sarebbe anche il declino di una civiltà fondata sui valori della dignità, della giustizia e della solidarietà.

Al centro del dibattito è finito un incolpevole articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa. Che l’articolo 18 sia nel tempo diventato una bandiera è difficile negarlo, che quella bandiera sia oggi in grado di sventolare come in passato e trascinare una mobilitazione generale in sua difesa è per lo meno azzardato sperarlo.

L’Italia è, in Europa, uno dei Paesi che hanno moltiplicato i contratti di lavoro “flessibili”, meglio sarebbe dire “precari”: nonostante questo persiste la leggenda di un mercato del lavoro rigido, con un eccesso di protezione. L’OCSE l’ha appena smentito: sono maggiori le protezioni dei lavoratori in Germania, Olanda e Svezia, cioè proprio in quei Paesi additati come esempio da seguire.

A ben guardare c’è spazio per tutele crescenti, in particolare per chi parte da zero o quasi, senza innescare precipitosamente meccanismi di tutele decrescenti, per chi i propri diritti li vede erodere ogni giorno. Per una ragione molto semplice: che i diritti o sono uguali per tutti oppure sono privilegi.

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