Che fine ha fatto la “questione turca”?

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Non è passato molto tempo da quando l’insistenza dei giornali sulla Turchia ne faceva sembrare imminente l’adesione all’UE, eppure la questione sembra oggi essere sparita dall’agenda politica europea. In realtà  , nei giorni scorsi il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo, ha approvato a larga maggioranza una relazione che fa il punto sullo stato non idilliaco dei rapporti fra Turchia e Unione europea. La Turchia bussa alle porte dell’Europa dalla sua nascita: la prima richiesta di adesione, che sfocia nel 1963 in un accordo di associazione per la creazione di un’unione doganale, risale al 1959, la seconda al 1987; ma solo nel 1999 l’UE riconosce alla Turchia lo status formale di Paese candidato: nel frattempo, l’Europa dei Sei era diventata quella dei Quindici, e si apprestava ad affrontare l’allargamento più grande della storia che riguardava 12 Stati di cui 10 ex comunisti.
Fra il 2000 e il 2005, la Turchia compie enormi sforzi di riforma per adeguarsi ai criteri imposti dall’UE ai potenziali aderenti: democraticità  , rispetto dei diritti umani e tutela delle minoranze, Stato di diritto, solidità   economica, adeguamento alle norme e alle politiche comunitarie. Questa effettiva volontà   di cambiamento, di cui il simbolo più evidente è la messa al bando totale della pena di morte, viene riconosciuta dall’UE con l’apertura, nell’autunno 2005, dei negoziati di adesione.
Ma l’iter della Turchia, rispetto a quello di altri Paesi candidati come la Croazia (che sarà   presto seguita dal resto dei Balcani), ha qualche peculiarità  : è «un processo aperto dall’esito non predeterminato» che non potrà   concludersi prima del 2014 e potrà   essere sospeso in qualunque momento in caso di violazione dei diritti umani o dei principi fondamentali di democrazia e Stato di diritto; l’eventuale adesione, inoltre, sarà   sottoposta a «lunghi periodi di transizione» e «limitazioni permanenti» soprattutto in campi delicati come la libera circolazione delle persone, i fondi strutturali e l’agricoltura.
Del resto, già   nel 2006 otto capitoli negoziali sono stati congelati a fronte del rifiuto di Ankara di riconoscere l’autorità   della Repubblica di Cipro sulla parte nord dell’isola (occupata nel 1974 dall’esercito turco per difendere la propria minoranza a seguito del colpo di Stato appoggiato dalla Grecia dei colonnelli).
Questa motivazione, prettamente diplomatica, non basta a giustificare le reticenze che da mezzo secolo rimandano la partecipazione della Turchia al progetto comunitario, volto ad unire i popoli d’Europa superando i conflitti che li dividono da secoli.
Il primo dato che salta all’occhio è l’arretratezza economica della Turchia: il reddito pro capite non è che un terzo della media europea, la disoccupazione è elevata, ma soprattutto ancora il 30% della manodopera è impiegato in agricoltura. Tuttavia, i tassi di crescita registrati in questi ultimi anni (7% medio nel periodo 2003-2007) sono invidiabili, e percorsi come quelli dell’Irlanda e della Spagna dimostrano che l’ingresso nell’UE, se ben sfruttato, puಠcostituire una chiave di volta per lo sviluppo economico e sociale. Inoltre, in presenza di una volontà   politica, le differenze economiche non hanno mai costituito un ostacolo all’integrazione di nuovi Paesi nell’UE, come è parso evidente nell’ultimo grande allargamento a Est. Ciಠche spaventa della Turchia è anche il suo peso demografico: una popolazione di più di 70 milioni che, si prevede, nel 2050 potrà   raggiungere i 100. In un’Europa dove aumentano razzismo e xenofobia, con l’Italia non per la prima volta a fare da apripista, ciಠbasta a seminare il panico e la rabbia verso una possibile ondata migratoria. Ma le stesse stime demografiche ci raccontano una storia diversa: quella di un’Europa che invecchia e dove, nel 2050, l’indice di dipendenza (rapporto fra pensionati e lavoratori attivi) raggiungerà   il 51%: ben vengano quindi le «invasioni» di giovani lavoratori a dare respiro ai nostri sistemi di sicurezza sociale.
In realtà  , più si va a fondo alle motivazioni contrarie all’adesione turca e più viene in rilievo la questione identitaria: la «versione laica» sostiene che le differenze culturali renderebbero impossibile l’integrazione della Turchia nell’UE (dimenticando che uno dei valori fondanti del progetto europeo è il riconoscimento dell’importanza delle diversità  ) oppure si appiglia ai confini geografici dell’UE, che da sempre si definisce invece come comunità   di valori e di progetto. La «versione religiosa», invece, sbandiera apertamente le «radici cristiane» dell’Europa come baluardo contro l’ingresso di un Paese a stragrande maggioranza islamica, sebbene ben più laico di alcuni Paesi della stessa UE.
Anzi, come sostiene la strategia di allargamento della Commissione, un’Unione comprendente la Turchia (definita «un’interfaccia unica tra l’occidente e il mondo musulmano») potrebbe contribuire in modo decisivo alla costruzione di «un’alleanza di civiltà  », quindi alla sicurezza e alla stabilità   dell’UE. Senza perdere di vista gli indubbi vantaggi strategici di una possibile adesione della Turchia, passaggio obbligato di oleodotti e gasdotti che dal Caspio e dal Medio Oriente muovono verso Ovest senza passare per la Russia.
Se un problema si pone all’adesione turca, è quello dello Stato di diritto, dei diritti umani e delle minoranze, da sempre messo in primo piano dal Parlamento europeo. Sebbene un segnale positivo venga dalla recente riforma dell’art. 301 del codice penale (che a nome dell’identità   turca limitava fortemente la libertà   di espressione) molti sono i passi che la Turchia deve ancora compiere su questo terreno, come rileva il Rapporto della popolare danese Ria Oomen-Ruijten approvato dalla plenaria europarlamentare.
L’opportunità   offerta dai negoziati con la Turchia sta proprio in questo: nel momento in cui l’Europa chiede come requisito indispensabile per l’adesione il rispetto dei diritti fondamentali e la tutela delle minoranze, sa che non potrà   essere meno intransigente nei confronti dei propri Stati membri, come ha dimostrato il dibattito della stessa plenaria del Parlamento europeo sulla situazione dei rom in Italia.
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