Al fronte con l’Ucraina anche il Consiglio d’Europa

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C’è sul nostro continente un’Istituzione europea poco conosciuta: è il Consiglio d’Europa, Istituzione spesso confusa con quella di gran lunga più nota dell’UE, il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo dei Ventisette. 

Il Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo, è nato con il Trattato di Londra del 5 maggio 1949 associando dieci Paesi, tra i quali l’Italia e gli altri cinque Stati che due anni più tardi, il 18 aprile 1951, avrebbero dato vita alla prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio.

Col tempo i membri del Consiglio d’Europa avrebbero raggiunto un numero massimo di 47 Stati membri, oggi diventati 46 dopo l’espulsione della Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel 2022.

Nei suoi 75 anni di vita si contano solo quattro Vertici dei Capi di Stato e governo aderenti, l’ultimo gli scorsi giorni a Reykjavik in Islanda, con l’obiettivo di rinsaldare la solidarietà della “grande Europa” con l’Ucraina aggredita dalla Russia. 

Anche se tardivo, questo Vertice rispondeva alla missione principale del Consiglio d’Europa che, con la Convenzione firmata il 4 novembre 1950 a Roma, si era dotato del primo strumento giuridico internazionale per garantire la protezione dei diritti dell’uomo con competenze che si sarebbero ampliate nel tempo, in particolare con l’attività della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), chiamata in questa drammatica congiuntura a perseguirne le violazioni.

Al di là dei risultati del Vertice che si misureranno nel tempo, in particolare sulla base dell’attivazione di un Registro dei danni causati dall’aggressione russa, è importante constatare   l’avvio di un meccanismo internazionale di compensazione economica dei danni subiti dall’Ucraina e un complessivo rafforzamento della salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Non è il primo intervento sul tema: da tempo, e con inedita tempestività, si era già mossa la Commissione UE e, il 17 marzo scorso la Corte penale internazionale dell’Aja (CPI), con l’emissione di un mandato di arresto internazionale nei confronti di Vladimir Putin, nel contesto più ampio delle risoluzioni di condanna alla Russia da parte delle Nazioni Unite.

Siamo di fronte a un tentativo coordinato da parte delle organizzazioni internazionali di rimettere al centro il tema dei diritti e del rispetto della legalità: qualcosa che ricorda le molte iniziative sullo stesso tema messe in campo all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. 

Lo si legge fin da subito nel preambolo che apre lo Statuto dell’ONU nel 1945: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo… abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini”. 

Ritroveremo questi obiettivi riaffermati quattro anni dopo, con la creazione del Consiglio d’Europa, ma già prima con le nuove Costituzioni adottate dai Paesi europei appena usciti dalla guerra. E’ il significato centrale dell’articolo 11 della nostra Costituzione quando afferma che l’Italia “consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”, traducendo in una prospettiva sovranazionale il dettato dell’art. 2 della Costituzione, per il quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”.

Allora la lezione della guerra venne accolta subito, contrastando pretesi diritti alla forza con la forza del diritto: adesso è di nuovo venuto il momento di ripassare quella lezione e trarne le doverose conseguenze.

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