Vertice UE a Milano, aspettando crescita e occupazione

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Hannah Arendt avrebbe detto del recente Vertice UE a Milano sull’occupazione che aveva “un grande futuro alle spalle”. Pensato dalla presidenza semestrale italiana dell’UE come un confronto decisivo sulle future politiche per la crescita e l’occupazione, l’incontro avrebbe dovuto avere dignità di Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo e tenersi a Torino nello scorso luglio. Troppo presto per poter mettere sul tavolo qualcosa di concreto e troppo dentro una transizione istituzionale europea avviata dalle elezioni europee di maggio e tuttora in corso: l’assenza della nuova Commissione europea e del nuovo Presidente del Consiglio europeo non avrebbe consentito di approdare a decisioni concrete, come effettivamente è accaduto a Milano la scorsa settimana.

Il rischio che finisse così era alto, dopo analoghe esperienze tentate nel 2013, prima a Berlino a luglio e poi a Parigi a novembre dell’anno scorso. E tuttavia qualcosa bisognava fare, a fronte di una disoccupazione che non rientra e che nell’UE s’aggira attorno ai 25 milioni di senza lavoro, con picchi allarmanti per la disoccupazione giovanile che in Italia, Spagna e Grecia colpisce circa un giovane su due: Renzi ci ha provato con un Vertice declassato a “Conferenza sull’occupazione”, cui hanno partecipato una ventina dei massimi responsabili dei 28 Paesi UE.

La presidenza semestrale italiana dell’UE aveva in proposito qualche motivo in più per provarci: a ormai meno di tre mesi dalla conclusione del mandato, il bilancio del semestre a guida italiana è meno che modesto, ma soprattutto incombevano per il governo italiano due scadenze politicamente sensibili.

La prima, in contemporanea col Vertice, il passaggio in Senato della nuova legislazione sul mercato del lavoro, una riforma attesa non solo da Bruxelles e Berlino ma anche dai mercati; la seconda, l’imminente trasmissione a Bruxelles, il 15 ottobre, della Legge di stabilità a conferma che l’Italia rispetta i vincoli del deficit, anche se in presenza di un rinvio del rientro dal debito pubblico consolidato.

Come sia andata in Senato la riforma del mercato del lavoro non è del tutto chiaro, in attesa dei decreti attuativi e del passaggio del testo alla Camera. Sembrerebbe che la riforma sia in grado di far svoltare le regole sul mercato del lavoro: c’è da crederci, se anche Angela Merkel ha dato la sua benedizione. Tuttavia non al punto di concedere in cambio all’Italia più flessibilità sui conti di quanto sia stato consentito finora, salvo una contenuta apertura sull’uso di alcuni fondi europei, in particolare per l’occupazione giovanile.

Ma il vero momento di verità sarà quello della Legge di stabilità, la cui valutazione è affidata a Bruxelles, SI SPERA a quella guidata dal nuovo Presidente Jean – Claude Juncker, dal quale il governo Renzi si attende comprensione. Ancora una volta tutta l’enfasi è portata sull’ormai mitica soglia del 3% del deficit sul Prodotto interno lordo, fingendo di non sapere che lo sguardo di tutti è prevalentemente puntato sul debito pubblico che continua a crescere e che, nonostante Mario Draghi ci sia venuto in soccorso con tassi d’interesse vicini allo zero, costa all’Italia circa 90 miliardi all’anno, rendendo fragile il rispetto sui vincoli appena appena rispettati sul deficit.

I giorni scorsi è risuonato anche l’allarme del Fondo monetario internazionale (FMI) che, se da una parte sollecita l’UE – e la Germania in particolare – a promuovere politiche di crescita, dall’altra continua a premere sull’Italia perché acceleri il risanamento dei propri conti pubblici se vuole avere un futuro perlomeno sereno.

Quanto possa sentirsi sereno in queste condizioni Matteo Renzi non è difficile immaginarlo. E con lui gli italiani, che da questo governo si aspettano molto.

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