L’Unione Europea ha alle spalle una storia già lunga di oltre settant’anni, ma non è una garanzia per assicurarle un futuro altrettanto importante, anche perché nemmeno ad essa è consentito vivere di rendita. Come per tutte le creature umane il passato è un patrimonio che però non va dilapidato se si vuole che progredisca nel tempo.
Ci sono momenti in cui il passato non basta più e diventa necessario investire sul futuro ed è la prova a cui l’UE era attesa nel Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo della settimana scorsa a Bruxelles, al termine di una fase di intensi negoziati tanto al suo interno che con il resto del mondo.
L’Unione Europea la settimana l’aveva iniziata bene in trasferta a Dubai dove si teneva la COP 28, il Vertice ONU sul surriscaldamento climatico, conclusosi in extremis con un accordo sull’avvio di un progressivo abbandono delle energie fossili, grandi responsabili del deterioramento del Pianeta, da realizzare entro il 2050. Certo sarebbe stato meglio arrivarci prima, impedendo con misure vincolanti, nei 27 anni che restano, di produrre altro inquinamento, ma nel contesto attuale, come usa dire, “piuttosto di niente, meglio piuttosto”. E di questo risultato l’UE può vantar merito per la determinazione con la quale lo ha cercato e per l’impegno ottenuto di triplicare nel frattempo la produzione di energie alternative.
Si annunciava difficile anche la partita che l’UE doveva giocare in casa, con conseguenze importanti per il suo futuro, a partire da un presente segnato da due guerre ai suoi confini e da difficoltà a sostenere i Paesi coinvolti verso una pacificazione di cui non c’è traccia oggi all’orizzonte.
Sul fronte caldo del conflitto israelo-palestinese l’UE non è stata in grado di adottare una posizione comune, come recita la scarna riga di conclusioni del Vertice dei 27: “Il Consiglio europeo ha tenuto un dibattito strategico approfondito sul Medio Oriente”. Dopo due mesi di barbari massacri si poteva sperare di più, ma non lo consentivano le divisioni interne tra i governi nazionali UE.
È andata meglio con l’Ucraina, alla quale l’UE ha confermato il suo “risoluto impegno” a fornirle “un forte sostegno politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico per tutto il tempo necessario”. In particolare il “sostegno politico” si è tradotto con la decisione di “avviare negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e di “concedere lo status di Paese candidato alla Georgia”, con il risultato che avremo nei prossimi anni molti altri sensibili chilometri di frontiera con la Russia, mentre dovrebbero progredire più rapidamente gli allargamenti verso i
Paesi dei Balcani in lista di attesa da una ventina d’anni.
Qualcuno non ha esitato a definire “storica” la decisione di accogliere l’Ucraina nell’UE e forse ci può stare, trattandosi di un’inedita apertura a un Paese in guerra, con un’imponente ricostruzione da affrontare, proprio mentre gli Stati Uniti hanno difficoltà a mantenere i loro impegni e sapendo che questo allargamento non è gradito allo “zar invasore”, che già tiene il fiato sul collo ai Paesi baltici e minaccia le frontiere della Finlandia.
Non sarà facile nemmeno trovare le risorse finanziarie per far fronte a questi allargamenti – e il veto dell’ungherese Orban ad un aumento del bilancio UE per l’Ucraina lo dimostra – ma sarà anche più difficile procedere sulla strada delle riforme, tanto in Ucraina che nell’UE, le cui Istituzioni sono già adesso in affanno a funzionare con 27 Paesi, figuriamoci quando saremo in 35.
C’è da sperare che non avvenga dell’UE quanto Churchill disse dei Balcani: il rischio che corriamo di “produrre più storia di quanta riusciamo a consumarne”.