La storia dell’Unione Europea, a oltre settant’anni dalla sua nascita, racconta di una crescita progressiva nel tempo e nello spazio. Una crescita economica e commerciale importante, una crescita sociale ancora diseguale e a rischio, una crescita politica ancora di gran lunga insufficiente a fronte di una crescita territoriale di ampie dimensioni.
Nata con sei Stati membri negli anni ‘50 l’UE si è progressivamente dilatata fino a 28 Paesi, oggi a 27 dopo la secessione britannica, ed è adesso alla vigilia di decisioni importanti per nuovi allargamenti nei prossimi anni. Vale la pena tentare un primo bilancio della sua dilatazione e interrogarci sulle prospettive di future adesioni.
La crescita territoriale dal 1973 ad oggi non si è sempre tradotta in una crescita della coesione sociale e politica, in particolare dopo i grandi allargamenti di inizio secolo nell’Europa centrale e orientale, come testimoniano le vicende di Polonia e Ungheria. Tutto questo mentre il mercato unico europeo si è rafforzato, l’euro è diventata la moneta unica di 20 Paesi e sono cresciuti gli scambi culturali all’interno dell’UE e con essi si è andata sviluppando la consapevolezza di una comune cittadinanza europea, nel rispetto delle culture locali.
Adesso si avvicina una possibile nuova ondata di allargamenti e a metà dicembre il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo dovrà indicare in quale direzione andare e con quale ritmo, tenuto conto dell’attuale quadro politico e istituzionale dell’UE a 27.
La Commissione europea ha formulato l’8 novembre scorso le sue raccomandazioni, proponendo di avviare negoziati con l’Ucraina e la Moldavia, concedere lo status di Paese candidato alla Georgia e di avviare negoziati di adesione con la Bosnia-Erzegovina, una volta raggiunto il livello di conformità necessario, senza dimenticare chi è da tempo i negoziati li ha in corso come Albania, Montenegro, Macedonia del nord, Serbia e con la Turchia che i negoziati li ha avviati nel lontano 2005 ma sono oggi sospesi.
Si annuncia all’orizzonte del prossimo decennio un possibile allargamento a una decina di nuovi Paesi membri, una traiettoria che risponde all’ambizioso progetto di una riunificazione continentale, perseguita con relativo successo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e in cantiere all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991.
Da allora l’UE ha vissuto eventi importanti che ne hanno segnato il suo stato di salute, dall’irruzione del Covid a inizio 2020 all’invasione russa dell’Ucraina fino all’esplosione del conflitto israelo-palestinese nell’ottobre scorso, dopo aver vissuto una profonda crisi economica e finanziaria a cavallo del primo decennio del secolo e essere stata investita da forti venti nazional-populisti al suo interno.
E’ questa Unione, oggi pericolosamente frammentata politicamente, che deve valutare a quali condizioni allargarsi senza scoppiare e non può farlo senza affrontare il tema sensibile delle sue riforme interne, da quelle del bilancio e di una sua progressiva sovranità fino alle procedure decisionali, oggi spesso paralizzate dal voto all’unanimità.
Una risposta che dovrà tenere conto di un’imminente risoluzione del Parlamento, attesa a fine novembre, che chiederà al Consiglio europeo di avviare un processo di revisione dei Trattati per consentire all’Unione di modificare le procedure di voto, espandere le competenze UE nei settori della salute, dell’energia, della difesa, delle politiche sociali ed economiche e altro ancora.
Dipenderà da come evolveranno questi due versanti del problema dell’allargamento: da una parte i progressi nelle riforme nazionali dei Paesi candidati, dall’altra la riforma interna dell’UE, un “gigante economico e nano politico” condannato all’irrilevanza se continuerà a navigare a vista, con il rischio di affondare se non affronta la sfida di una profonda “manutenzione straordinaria” per ritrovare nuovo slancio.