La formazione della nuova Commissione europea non è stata una bella storia per l’Europa e non è ancora finita, almeno fino a quando non verrà definitivamente votata nella plenaria del Parlamento europeo il prossimo 27 novembre per entrare in funzione il 1° dicembre, quasi sei mesi dopo le elezioni europee del giugno scorso. Metà dell’anno dedicato a trattative non sempre trasparenti, a intese sotterranee e a cambi di alleanze, mentre ai confini immediati dell’Unione infuriano due guerre e oltre Atlantico si prepara il ritorno al potere di Donald Trump, eventi grazie ai quali quella storia si è provvisoriamente conclusa, altrimenti chissà che cosa avremo ancora dovuto aspettarci.
Vale la pena chiarire perché questa storia peserà sul futuro dell’Unione Europea visto che, salvo sorprese da non escludere, dovrebbe durare fino all’alba del 2030, una data annunciata di svolta tanto per il continente che per il resto del mondo, impegnato nel perseguimento di ambiziosi obiettivi per dare un futuro del Pianeta.
Intanto della Commissione europea va ricordata la missione prevista dai Trattati UE come motore del processo di integrazione comunitaria, dotata in esclusiva di un potere di iniziativa e, insieme alla Corte europea di giustizia, di un potere di controllo sul rispetto delle regole costitutive dell’UE, oltre che della responsabilità di gestire il bilancio comunitario. Si tratta di compiti importanti affidati a un Collegio di 27 “ministri europei”, uno per Paese membro, sotto la presidenza anche in questa tornata di Ursula von der Leyen, proveniente dal principale partito europeo, il Partito popolare (PPE), a trazione tedesca e con un evidente tendenza a spostare il proprio baricentro verso destra, quando non addirittura alla ricerca di intese con le destre estreme presenti nel Parlamento europeo.
E’ stato qui l’epicentro degli sciami sismici che hanno alimentato le risse di questi ultimi giorni all’interno di una maggioranza di “centro-sinistra”, a rischio di smottamenti come sarà probabile constatare in occasione del voto palese del 27 novembre, quando il consenso in favore di Ursula von der Leyen potrebbe essere inferiore a quello della prima investitura del luglio scorso.
Il profilo complessivo della futura Commissione non impressiona per grandi stature politiche dei suoi componenti dove giganteggia facilmente una presidente “accentratrice”, non certo vincolata dalle sei vice-presidenze che la affiancano con limitati poteri, più simbolici che reali, come sperimenterà presto anche il commissario italiano, Raffaele Fitto, destinato a farci rimpiangere nostri commissari del passato, della statura di Mario Monti, ma anche di Emma Bonino e di Paolo Gentiloni, un ex-presidente del Consiglio, responsabile in questi ultimi cinque anni per la politica economica.
Con questa squadra si dovranno affrontare i cinque difficili anni che si profilano per il mondo e per l’Europa alla ricerca della pace, di uno sviluppo meno ineguale, del rispetto dello Stato di diritto e di nuove politiche per la salvaguardia del Pianeta. Tutto questo nel contesto di un Parlamento europeo esposto ad “alleanze flessibili”, quando non contro natura, e a fronte di 27 governi europei, tanto più “egoisti” quanto più sono politicamente fragili, preoccupati di difendere una loro presunta “sovranità nazionale” fuori dalla storia e di ridurre in qualche misura, ciascuno per sé, il danno delle turbolenze politiche in arrivo dall’altra sponda dell’Atlantico.
Nella difficile congiuntura storica che viviamo l’Unione Europea avrebbe meritato una Commissione più solida e coesa: toccherà al Parlamento europeo controllarla da vicino, avvalendosi dei suoi pur limitati poteri per spingerla a far valere la sua indipendenza dai residui poteri dei governi nazionali. Sarà importante che le forze progressiste del Parlamento europeo sviluppino, più che non in passato, la propria potenziale capacità di “opposizione” al “governo Ursula”, a salvaguardia di un processo di integrazione comunitaria a rischio.