Sono trascorsi solo pochi giorni dall’attentato che ha scosso Istanbul provocando sei vittime e numerosi feriti e la ritorsione del Governo turco si è prontamente concretizzata. Senza sorpresa, la risposta è andata a colpire, attraverso raid aerei, obiettivi curdi nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq, puntando in particolare sul Partito dei lavoratori curdi (PKK) e su altre milizie curde considerate da Ankara gruppi terroristici. E’ stato un attacco militare effettuato prima ancora di giungere a conclusioni ufficiali di responsabilità sull’attentato, responsabilità che i curdi hanno immediatamente respinto. Rimane il fatto che questo primo raid, che ha già mietuto più di trenta vittime e numerosi feriti, riapre un fronte di guerra in un Medio Oriente in continua tensione.
Si tratta di un nuovo passo avanti nella tenace strategia di Erdogan di eliminare completamente alla frontiera meridionale della Turchia quella presenza di combattenti curdi ritenuti responsabili dell’insicurezza del suo Paese, deciso ad allargare e completare quella “zona di sicurezza”, profonda trenta chilometri, già parzialmente realizzata dall’esercito turco in precedenti operazioni militari a partire dal 2016. Concretamente, l’obiettivo di Ankara è quello di scongiurare la creazione di un’autonomia territoriale curda nelle regioni siriane confinanti a sud.
La risposta militare di Ankara si situa in un contesto interno politico ed economico alquanto sensibile e dove appaiono all’orizzonte, nel giugno 2023, le prossime elezioni legislative e presidenziali, elezioni che Erdogan non intende perdere. Limiti alle libertà fondamentali, un’inflazione galoppante e una lira in caduta libera premono tuttavia sulla credibilità del Governo attuale e sulla tenuta sociale ed economica del Paese. Ma, è soprattutto a livello internazionale che peseranno sulle future elezioni il ruolo che lo stesso Presidente Erdogan sta tessendo come protagonista e mediatore su vari scenari geopolitici, dalla guerra in Ucraina e dai rapporti con Russia e Ucraina al Caucaso, dal Mediterraneo orientale alla Libia, dal rapporto con gli Stati Uniti a quello con la NATO. Su quest’ultimo terreno infatti, Erdogan tiene tuttora in sospeso la candidatura di adesione di Svezia e Finlandia proprio a causa del loro rapporto con i curdi.
Ma la Turchia non è il solo Paese che in questo momento e in zone contigue ha messo sotto attacco i curdi. Anche l’Iran, nella notte tra il 20 e il 21 novembre, ha attaccato con caccia e droni i curdi nel Kurdistan iracheno, accusati di alimentare le proteste che non accennano a diminuire in Iran da due mesi a questa parte. Sebbene Iran e Turchia abbiano agende politiche distanti fra loro, hanno trovato tuttavia una regia comune, per interessi diversi, contro il Kurdistan e il popolo curdo, il più grande popolo al mondo senza Stato. Al riguardo è difficile immaginare come i curdi, iracheni o siriani che siano, possano mettere in difficoltà due Stati sovrani come appunto la Turchia e l’Iran.
L’Iran, con questa operazione curda, rivela tutta la difficoltà di un regime a frenare e fermare quelle manifestazioni che ormai durano da più di due mesi, hanno investito tutto il Paese e coinvolto la maggior parte della popolazione. Rivolte non solo coraggiose e di indignazione, ma anche rivolte politiche, senza paura della repressione che diventa ogni giorno più feroce, fino a toccare la violenza della pena di morte. Segnali che scuotono le fondamenta della Repubblica islamica, mai così in difficoltà dalla presa del potere degli ayatollah nel lontano 1979, con il rischio che la rivolta si trasformi in una rivoluzione.