Troppe inquietudini a sud del Mediterraneo

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Tante le notizie inquietanti che da mesi ci giungono dalla sponda del Mediterraneo, da quel Medio Oriente in piena trasformazione, dove si stanno ridisegnando nuove frontiere nell’obiettivo di costituire un nuovo Califfato, dove il terrorismo e il vento della guerra jihadista soffia ormai non solo dall’Iraq e dalla Siria, ma attraversa anche gli Stati circostanti, si dirige verso Ovest, ha raggiunto la Libia e ora anche la Tunisia. A guardare una cartina geografica si ha la chiara percezione di un progressivo avvicinamento alle coste dell’Europa.

In tale contesto, il 18 marzo segna la data di un terribile attentato terroristico a Tunisi che ha causato più di 20 vittime, in maggioranza stranieri e turisti, fra cui 4 italiani che fiduciosamente visitavano uno dei musei più belli e più ricchi della città. Un attentato che, proprio per il posto in cui è stato perpetrato, racchiude in sé le chiavi di lettura degli obiettivi che voleva colpire e distruggere. Nella stessa piazza in cui si trova il museo, c’è infatti anche la sede del Parlamento tunisino, probabilmente l’obiettivo principale dell’attentato, il quale, proprio in quel momento, stava discutendo una nuova legge per far fronte all’insidia sempre più minacciosa del terrorismo. Tre simboli importanti quindi: l’attentato voleva colpire il cuore di quella fragile democrazia tunisina, unica sopravvissuta con tenacia, fatica e coraggio alle primavere arabe del 2011; ha voluto, ancora una volta prendere come bersaglio la cultura, il museo, riproponendo alla memoria le recenti e terribili immagini delle distruzioni nel museo di Mosul; ed infine ha voluto colpire uno dei settori portanti dell’economia tunisina, il turismo appunto. Questi tre aspetti caratterizzanti dell’attentato di Tunisi mettono in luce gli obiettivi perseguiti dai terroristi, volti a destabilizzare e fermare quel cammino, unico nel suo genere, che sta cercando di percorrere la Tunisia e cioè, attraverso un Islam plurale, a coniugare tradizione e modernità, diritti e libertà e progresso economico. L’hanno detto e scandito i tunisini che sono scesi in piazza immediatamente dopo l’attentato per difendere i valori che il Paese e la società civile avevano costruito in questi ultimi quattro anni. Una grande manifestazione che riproponeva gli echi recenti di Parigi e che rivolgeva contemporaneamente anche un pressante invito all’Europa a scendere con urgenza in campo per sostenere politicamente, culturalmente ed economicamente questo faticoso cammino.

Ma il 18 marzo è stato segnato anche dai risultati delle elezioni in Israele, risultati che gettano un’ulteriore luce inquietante sul futuro della stabilità regionale e, in particolare, per quanto riguarda il futuro delle relazioni fra Israele e Palestina. Per la quarta volta, la grande vittoria del Likud, non data ingenuamente per scontata dai sondaggi, è stata ottenuta grazie anche alle ultime battute di una campagna elettorale incentrata soprattutto sui temi della sicurezza e con le definitive parole del leader Netanyahu: “Se vinco, non ci sarà uno Stato palestinese”. Una picconata al processo di pace, un nuovo avvio agli insediamenti dei coloni nei Territori occupati, una totale indifferenza al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni dell’ONU. In prospettiva, nessun diritto a un futuro per il popolo palestinese, con tutti i risvolti che ciò può comportare in una regione e in un contesto così pericolosamente instabili.

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