Siria, Idlib, l’ultima tappa della guerra

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È una guerra in corso da ormai nove anni, una guerra che non ci ha mai risparmiato orrori e violenze e che ha finito per diventare una sfuggevole cronaca giornaliera persa fra le pieghe di nuove e incalzanti attualità.

Eppure quello che sta succedendo a Idlib, nel Nord Ovest della Siria, dal dicembre 2019 è un vero e proprio disastro umanitario di enormi dimensioni, dove circa 3 milioni di civili si ritrovano presi nella morsa di violenti combattimenti fra le forze governative di Bachar al Assad, sostenute dalla Russia e i combattenti ribelli, in gran parte jihadisti, appoggiati dalla Turchia. 

Le immagini che ci giungono dai luoghi di combattimento testimoniano della rinnovata ferocia di questa guerra infinita, dove i bombardamenti piovono alla cieca sui civili, sugli ospedali, sulle scuole, sui mercati. Dall’inizio dell’offensiva sono circa 900.000 le persone sfollate e che, in gran parte, si dirigono verso la frontiera turca. Una frontiera ormai blindata, con tanto di muro e filo spinato.

A Idlib si stanno affrontando una molteplicità di attori, coniugando interessi divergenti e contraddizioni politiche. E’ l’ultimo pezzo di Siria non ancora ricaduto nelle mani di Bashar al-Assad, deciso con il suo esercito a riconquistarlo ad ogni costo e ad ogni prezzo umano. In gioco, il controllo totale del raccordo fra il sud e il nord del Paese, in particolare l’autostrada che congiunge la capitale Damasco ad Aleppo, snodo e centro quest’ultimo della vita economica, industriale, commerciale e di transito della Siria. Non a caso infatti è stato riaperto proprio in questi giorni anche l’aeroporto di Aleppo, fermo da più di otto anni. 

A sostegno di Bachar, come detto prima, un’inarrestabile Russia, entrata nel 2015 nel conflitto siriano ed ora attore decisivo per le sorti non solo del Paese ma dell’intera regione. Di fronte, la resistenza di un insieme di ribelli siriani e di varie fazioni jihadiste sostenute da Ankara, sensibilissima alla sicurezza della sua frontiera meridionale, mette in evidenza non solo l’opposizione fra attori locali, ma getta anche una luce inquietante sullo sviluppo, al riguardo, dei  rapporti fra Russia, Turchia e Siria nel conflitto. 

Sembra infatti un paradosso il fatto che proprio Ankara e Mosca, con l’accordo di pace firmato a Sochi nel 2018, si siano impegnate a garantire la demilitarizzazione di quella zona e il rispetto di un cessate il fuoco e oggi, invece, siano divenute determinati avversari sul terreno. A giudicare dall’intensità dei combattimenti e dalle zone riconquistate con tanto impegno militare da parte dell’esercito di Bachar, è evidente che la strada per la pace, in quella zona strategica della Siria, non era quella indicata a Sochi da Erdogan e da Putin. Benché i due Paesi continuino a dialogare e a non chiudere la porta ad un’intesa diplomatica, Erdogan continua a minacciare un “intervento militare” per riprendere i territori rioccupati da Bachar al Assad. 

In un contesto giudicato catastrofico e carico di immense sofferenze umane  dalla comunità internazionale, la popolazione in fuga è cinicamente vittima di mercanteggiamenti fra Russia e Turchia, intenzionate a reincontrarsi il prossimo 5 marzo, in presenza tuttavia della Francia e della Germania. 

Nel frattempo, l’Unione Europea, purtroppo sempre grande assente sulla scena internazionale e, in particolare, sulla scena mediorientale,  in un Vertice tenuto a Bruxelles il 20 febbraio scorso, ha invitato le parti in conflitto a porre fine ai combattimenti, a raggiungere un cessate il fuoco permanente e a garantire corridori umanitari affinché gli aiuti possano raggiungere le popolazioni coinvolte. Inoltre, l’Unione nel suo comunicato, ribadisce l’appello “a che la situazione in Siria sia portata dinanzi alla Corte penale internazionale”.

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