Di questo passo, dopo al bavaglio della stampa su vicende giudiziarie, a qualcuno potrebbe anche venire in mente di riprovarci vietando la diffusione dei dati che raccontano un’Italia diversa da quella di cui avremmo bisogno e molto diversa da quella decantata dalla propaganda politica.
Difficile negare che abbia un certo effetto deprimente sentire che l’economia registra una crescita di appena metà rispetto a quella prevista dal governo, che il debito pubblico cresce, che gli stipendi scendono a fronte dell’inflazione cresciuta e solo parzialmente riassorbita, che la produzione industriale non cessa di calare, che il mercato dell’auto in Italia continua a crollare e la cassa integrazione a cercare provvisori ristori e via seguitando.
Per completare il quadro adesso è anche arrivato un Rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che riunisce 35 dei Paesi più sviluppati del mondo con economia di mercato e sistema democratico: ne è oggetto un’indagine sulle competenze degli adulti che colloca l’Italia in fondo alla classifica, tanto sul livello di alfabetizzazione che su quello dell’apprendimento della matematica e della capacità di trovare soluzioni ai problemi.
In estrema sintesi, la classifica nei tre settori citati vede saldamente in testa tra gli europei i Paesi nordici con Finlandia, Svezia e Norvegia e ultimi, all’estremità opposta del continente, Portogallo e Italia, quanto basta per misurare le distanze non solo chilometriche che pesano da nord a sud sul futuro della coesione europea.
Per chiarezza, qui non si parla dei nostri studenti nella scuola dell’obbligo, ma di persone tra i 16 e i 65 anni, la fascia in età lavorativa, con quanto ne consegue anche per il nostro mercato del lavoro, dove attività e competenze si incontrano solo al 50%.
Non meno preoccupante l’impatto dell’analfabetismo funzionale che vede in Italia una persona su tre non in grado di comprendere un testo scritto di media complessità, in un Paese dove si riduce pesantemente il numero di lettori a fronte di una valanga di pubblicazioni cartacee e non, privilegiando comunicazioni social, costrette in poche e approssimative parole.
Sommati insieme questi intrecci di dati dovrebbero fare riflettere sulle crescenti difficoltà di comunicazione, in particolare quando i temi esigerebbero approfondimenti e verifiche per evitare il rischio di malintesi e, peggio ancora, di manipolazioni. Sta qui una delle radici della disinformazione, originata da una moltiplicazione di messaggi che non arrivano a destinazione e da quelli che, quando arrivano, molto spesso o non sono compresi o provengono da fonti non accreditate per fondatezza e serietà.
Non è in buona salute una democrazia nel mondo quando l’informazione è soffocata da dittature e autocrazie e, dove resiste lo Stato di diritto, si riducono i margini della libera espressione nei media, pubblici e privati: i primi controllati da vicino dal potere politico di turno e i secondi da concentrazioni editoriali e da proprietà dove altri interessi prevalgono sulla libera informazione.
Da tempo l’Unione Europea, cosciente del problema, lancia periodicamente l’allarme su questa deriva pericolosa, nutrimento costante di movimenti populisti, la cui responsabilità risiede nei Paesi membri sempre più inclini a sottomettersi alla “dittatura della maggioranza”, con governi che manovrano abilmente per ridurre i poteri di controllo degli organi parlamentari e di quelli giudiziari, accusati spesso di sabotare l’azione dell’Esecutivo e alcuni, per non farsi mancare niente, provano anche ad imbavagliare la stampa.
Non sono buoni segnali per il futuro delle nostre stanche democrazie.