Ruanda, fra commemorazione di un genocidio e guerra in Congo

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Sono trascorsi trent’anni dal genocidio e dalla pulizia etnica perpetrati in Ruanda da parte degli Hutu ai danni dei Tutsi. Un massacro durato tre lunghi mesi di follia omicida da parte di un’etnia maggioritaria rispetto ad una minoritaria, ritenuta responsabile dell’incidente aereo e della morte dell’allora Presidente Hutu, Juvenal Habyarimana. Una follia che ha fatto circa 800.000 vittime, sotto gli occhi di una comunità internazionale che, in quel momento, ha dimostrato una colpevole assenza.

Le commemorazioni per le vittime del massacro, che si sono svolte a Kigali in questi ultimi giorni, sono state particolarmente significative, non tanto per la solennità delle cerimonie, ma quanto per la presenza di leader mondiali e rappresentanti di quella comunità internazionale che aveva chiuso gli occhi nel 1994. 

E’ stato un momento in cui il Presidente del Ruanda, Paul Kagame, al potere dal 2000, ha avuto le sue prime risposte alle accuse sempre rivolte al mondo, ribadite davanti al memoriale del genocidio: “E’ stata la comunità internazionale ad aver fallito, per disprezzo o per codardia”. 

Risposte di responsabilità sono venute dal Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel :”Dobbiamo ricordare, non dimenticare e imparare dai nostri errori”, mentre il Presidente francese Emmanuel Macron, nel suo mea culpa, ha dichiarato : “La Francia e i suoi alleati europei e africani avrebbero potuto evitare il massacro, ma ne è mancata la volontà”. Parole gravi, di memoria storica.

Il Ruanda, piccolo Paese dell’Africa orientale, malgrado la stabilità e la forte crescita economica che ha conosciuto dopo il genocidio, continua a vivere e a confrontarsi con la terribile eredità dei massacri, senza raggiungere una necessaria e vera riconciliazione dell’intera popolazione. E questo malgrado il fatto che il Governo di Kagame abbia bandito qualsiasi forma di organizzazione su base etnica.

Se queste commemorazioni riportano al passato del Paese, oggi è necessario rimettere sotto i riflettori il ruolo che sta giocando invece il Ruanda al di là delle sue immediate frontiere nell’Est della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Nord e del Sud Kivu. In quella regione ricca di minerali preziosi, dall’oro alle terre rare, dal litio ad altre materie prime critiche, tutte necessarie alla transizione energetica, è in corso, da circa trent’anni, una guerra a intermittenza per il controllo del territorio, fra il Movimento M23, uno dei tanti gruppi ribelli della regione e le forze governative congolesi. Il Ruanda è stato a lungo sospettato di sostenere il gruppo ribelle e di importare e gestire l’esportazione dei minerali preziosi. 

Un recente rapporto dell’ONU indica e conferma la responsabilità di Kigali nel conflitto in corso, particolarmente violento in questi ultimi mesi, un conflitto carico non solo di tutte le violenze nei confronti di una popolazione ormai stremata ma anche capace di destabilizzare l’intera regione. Secondo l’ONU, infatti, nella sola provincia del Nord Kivu, alla fine del 2023, erano più di 2.5 milioni gli sfollati. Un’altra guerra dalle proporzioni devastanti e di nuovo ignorata dalla comunità internazionale.

In questo contesto, l’Unione Europea, nel febbraio di quest’anno, ha firmato un accordo con il Ruanda per favorire lo sviluppo di catene del valore sostenibili e resilienti per le materie prime critiche. Un accordo fortemente criticato dalle organizzazioni della società civile che denunciano proprio il ruolo del Ruanda al riguardo, diventato prima importatore e poi esportatore di tali materie “insanguinate”. 

E tutto ciò, sempre sotto lo sguardo assente della comunità internazionale.

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