Ritardi nella costruzione dell’«Europa della conoscenza»

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Nel marzo del 2000, a Lisbona, il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dell’UE decise di affrontare il secolo che si apriva con l’adozione di una strategia ambiziosa «al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza». Nel testo allora adottato erano indicati obiettivi e scadenze: grazie alla «Strategia di Lisbona», entro il 2010 l’Unione doveva «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». A due anni da quella scadenza quali sono i risultati in Europa, e più in particolare in Italia, di quelle ambizioni?
Prima di rispondere è doveroso un accenno al contesto di avvio di questa strategia e a quello degli anni appena trascorsi. Le ambizioni dell’UE nascevano con l’entusiasmo del nuovo millennio, alla vigilia di una congiuntura economica che si annunciava molto favorevole. Ma poco più di un anno dopo quella decisione, a New York erano abbattute le Torri gemelle, Madrid e Londra subivano attentati dolorosi, prendeva avvio la sciagurata guerra in Iraq e si aggravavano i conflitti in Afghanistan e nell’area mediorientale. Negli stessi anni esplodeva la crescita di Cina e India, si impennava il costo dell’energia e si modificavano gli scenari economici e politici mondiali.
Non stupisce che oggi, a parte qualche grande traguardo raggiunto come l’allargamento dell’UE a 27 Paesi, i risultati siano di gran lunga inferiori alle attese, anche se non tutto si puಠmettere sul conto di eventi esterni all’Europa, a sua volta responsabile in proprio di ritardi e poco coraggio.
Le conseguenze sono state pesanti: lento l’avvicinamento a «una maggiore coesione sociale», sempre poco «sostenibile» la crescita entrata ora in una fase di rallentamento, parziale il risultato in materia di occupazione con «nuovi» posti di lavoro, difficili perಠda qualificare come «migliori».
In un simile contesto c’era da aspettarsi che l’Italia, da anni fanalino di coda nei progressi in Europa, facesse molto meglio. Anzi. A parte l’importante risanamento delle finanze pubbliche realizzato dal governo Prodi, poche sono state le riforme economiche andate in porto e inadeguate quelle realizzate nelle politiche sociali (si pensi ad immigrazione e ambiente) e nel rafforzamento di una società   della conoscenza capace di rendere il nostro Paese meglio attrezzato per affrontare la competizione globale.
Tra i molti «buchi neri» di questo quadro uno in particolare, se non il principale, riguarda proprio il ritardo nella realizzazione in Italia di una «società   della conoscenza» di livello europeo. Sono note a tutti le condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico e ricerche recenti, come quella dell’OCSE, hanno disegnato una mappa da brivido, non smentita nà© dai dati appena resi pubblici dall’ISTAT e dallo stesso ministero della Pubblica Istruzione. Tra tutti spicca il livello costantemente basso della spesa per l’istruzione: nel 2005 l’incidenza di questa voce sul PIL era pari al 4,4%, ampiamente inferiore alla media dell’UE a 27 che si attestava al 5,1% del PIL. Nel 2007 il 48,2% della popolazione compresa tra i 25 e 64 anni ha conseguito come titolo di studio più elevato la licenza di scuola media inferiore, valore distante dalla media UE a 27 (30% nel 2006) che ci colloca nelle ultime posizioni insieme a Spagna, Portogallo e Malta.
Informazioni non meno inquietanti giungono anche dal mondo universitario, dove tarda una severa razionalizzazione dopo anni di allegra espansione di facoltà   e corsi di laurea. Forse ancora più allarmanti, se possibile, le notizie che arrivano dal versante della ricerca: lo stesso governo italiano, in un suo imbarazzato Rapporto del 2007 sullo stato di avanzamento della Strategia di Lisbona, registra ritardi e risultati modesti. La verità   è che l’Italia, con il suo miserabile 1,1% di PIL destinato alla ricerca, è lontanissima dall’obiettivo europeo del 3% e di questo passo impiegherà   anni ad arrivarci. Non stupisce quindi che l’Italia abbia un indice di intensità   brevettuale tra i più bassi dell’UE a 15 (solo 4500 richieste di brevetti nel 2004) e che gli addetti alla ricerca, in unità   equivalenti a tempo pieno, siano da noi 3 ogni 1000 abitanti, collocando l’Italia al penultimo posto nell’UE a 15.
Il 2009 sarà   per l’UE l’Anno europeo della creatività   e dell’innovazione: un’occasione per il nostro Paese di accelerare verso un futuro che altrove è già   cominciato da tempo.

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