Più lavoro con meno Europa?

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Chi si aspettava grandi cose dall’incontro a Roma, la settimana scorsa, tra i ministri dell’economia e del lavoro di Italia, Germania, Francia e Spagna sarà rimasto deluso per la scarsità  di risultati concreti.

Meno delusi – o, meglio, meno sorpresi – quanti conoscono i limiti di questa Unione Europea e la crisi profonda nella quale si dibatte ormai da anni.

I limiti sono quelli fissati dai Trattati e la loro interpretazione, spesso restrittiva, in questa congiuntura che privilegia da tempo l’approccio intergovernativo rispetto a quello comunitario. Il tema del lavoro resta sostanzialmente di competenza nazionale e i margini di manovra sono stretti per attivare forme di coordinamento tra i Paesi membri.

In un simile contesto è da apprezzare l’iniziativa del governo italiano di promuovere un confronto tra i primi quattro Paesi dell’eurozona, portando al tavolo non solo i ministri del lavoro con le loro buone intenzioni, ma anche – e soprattutto – quelli dell’economia, nel tentativo di indurli ad allargare i cordoni della borsa e dare gambe alle idee dei loro colleghi, titolari dei dicasteri del lavoro.

Senz’altro positiva è stata l’esplorazione dei possibili strumenti finanziari a sostegno della crescita e dell’occupazione alla vigilia del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo a Bruxelles a fine giugno: un appuntamento importante, preceduto nei giorni scorsi dal Vertice del G8 in Irlanda e che sarà seguito, a inizio luglio, da una riunione dei ministri europei, dai quali ci si aspetta una traduzione concreta degli orientamenti adottati dal Consiglio europeo.

Come sempre avviene nell’UE, un percorso lento e tortuoso, spesso incomprensibile per i cittadini confrontati a scadenze urgenti, con la ripresa dell’economia sempre rinviata, le misure di austerità implacabili, il debito pubblico che s’impenna e la disoccupazione che continua a crescere.

Nonostante questo il mini-vertice di Roma non è stato inutile.

Per un verso ha confermato la linea dura della Germania – e sarà così almeno fin dopo le elezioni tedesche di settembre – a fronte della richiesta di maggiori flessibilità da parte degli altri Paesi, con la Francia preoccupata come al solito delle proprie differenze e Spagna e Italia attente a non disturbare i manovratori nel momento in cui la Corte costituzionale tedesca ha sul banco degli imputati la Banca centrale europea, accusata di eccedere nel sostenere i Paesi in difficoltà.

Per un altro verso non sono senza interesse le proposte emerse, in particolare da parte del governo italiano: si va dallo scomputo degli investimenti produttivi e delle misure per l’occupazione dal calcolo del deficit (appena sotto la soglia del 3%) all’uso anticipato dei sei miliardi di euro, previsti per il periodo 2014-2020, a sostegno dell’occupazione giovanile nell’UE; dal riorientamento dei fondi strutturali non ancora attivati al sostegno della Banca europea per gli investimenti, in grado di destinare 60 miliardi di euro di crediti alla piccole e medie imprese cui si potrebbero aggiungere le risorse delle Casse depositi e prestiti.

Dai tedeschi è venuta la proposta di favorire la mobilità di lavoratori qualificati verso i Paesi con un’economia in crescita, come Austria, Danimarca e – guarda caso – Germania, dove nel 2012 l’emigrazione di personale altamente qualificato è aumentato del 70% dalla Grecia e del 50% da Spagna e Portogallo. Non è una bella prospettiva per l’Italia, già dissanguata dalla fuga dei cervelli e considerata da qualcuno utile serbatoio per nuovi flussi migratori, peraltro già in corso.

Una prima considerazione s’impone: non ci sarà più lavoro equamente distribuito nei Paesi dell’UE fino a quando non ci sarà più solidarietà europea tra tutti i suoi Paesi membri.

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