Non si fermano le proteste nel mondo arabo

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Dopo la «rivoluzione» in Tunisia, si intensificano le proteste e le manifestazioni in Egitto. Iniziate il 25 gennaio scorso, anche gli egiziani sono scesi in piazza nelle principali città   del Paese a chiedere, con forza e determinazione, la fine del trentennale regime di Hosni Mubarak. Ad oggi si contano a centinaia i morti e i feriti e, a giudicare da come stanno rapidamente evolvendo le cose, la situazione non è ancora vicina ad una soluzione. E non solo per l’Egitto, ma per l’insieme dei Paesi a sud del Mediterraneo e in Medio Oriente.
Paese di circa 80 milioni di abitanti, l’Egitto è, insieme all’Iran, il Paese più popolato del Medio Oriente. Alleato strategico degli Stati Uniti, da cui è fortemente finanziato economicamente e militarmente, l’Egitto, oltre a condividere una frontiera con Israele, con il quale ha firmato un accordo di pace nel 1979, rappresenta uno dei Paesi chiave nel processo di pace israelo-palestinese.
La protesta, anche qui, nasce da una richiesta legittima di rispetto dei diritti, di democrazia, di libertà   di espressione e di migliori condizioni di vita. La popolazione scesa in piazza per rivendicare tali diritti è composta in maggioranza da giovani che hanno meno di trent’anni, giovani che nella loro vita hanno sempre e solo conosciuto il regime di Mubarak. La protesta ha già   avuto il suo numero di morti e feriti e le ultime notizie che ci arrivano non segnalano cedimenti da parte dei dimostranti.
Il presidente Mubarak ha cercato di rispondere alle richieste della popolazione con un cambiamento di governo e con la promessa di riforme politiche. Con un messaggio televisivo Mubarak ha promesso una giustizia indipendente, democrazia per garantire nuove libertà   ai cittadini, per combattere la disoccupazione, per migliorare le condizioni di vita, sviluppare i servizi e alleviare la povertà  . Un discorso dai toni distanti, che non ha avuto presa su una popolazione che continua a chiedere, per la prima volta in trent’anni, che Mubarak se ne vada.
Intanto si delinea, ancora con discrezione, una leadership al movimento di opposizione. I Fratelli Musulmani, forse la forza d’opposizione al regime di Mubarak più organizzata, hanno fatto le loro prime dichiarazioni e hanno ufficialmente aderito alla protesta. Una discrezione che risponde non solo alle preoccupazioni del mondo occidentale, ma anche al timore di una strumentalizzazione da parte del regime per la paura di una deriva islamica nelle proteste. Infine, resta da capire il ruolo dell’esercito, che, in questo braccio di ferro, si è mostrato vicino alla popolazione.
Alle elezioni del 2005, i Fratelli Musulmani avevano ottenuto 88 seggi al Parlamento, un risultato che nessun partito d’opposizione aveva mai ottenuto in Egitto. Malgrado una violenta campagna di arresti, avevano tuttavia deciso di presentarsi alle contestate elezioni legislative del novembre 2010, dove non ottennero alcun seggio in Parlamento.
Proprio i Fratelli Musulmani oggi, insieme ad altri movimenti di opposizione, hanno consegnato nelle mani di El Baradei, ex direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) e Premio Nobel per la Pace nel 2005, il compito di negoziare con il regime. El Baradei ha accettato e si è candidato a guidare la transizione.
Gli avvenimenti in Egitto non mancano di alimentare inquietudini e paure nell’intero Medio Oriente e in Occidente. Paura in Israele, che teme di perdere un vicino tutto sommato consenziente sulla sua intransigente politica nei Territori occupati e nei confronti dei palestinesi; timori in Europa e negli Stati Uniti per un’apertura o un’occupazione del potere da parte dell’integralismo islamico; paura che queste vere e proprie rivoluzioni si estendano ad altri Paesi, sconvolgendo equilibri retti su politiche geostrategiche spesso contraddittorie. Torna infatti, in questi momenti, il ricordo della rivoluzione iraniana del 1979, che nel giro di pochi giorni, trasformಠun Paese alleato degli Stati Uniti in un Paese nemico.
Sta di fatto che il cambiamento politico in Egitto è in corso e non sappiamo ora quale sarà   lo sbocco finale. Un primo risultato è stato comunque raggiunto: il presidente Mubarak non si presenterà   alle elezioni presidenziali del prossimo settembre.
Sappiamo comunque che il vento della richiesta di democrazia e del cambiamento spira su altri Paesi, dall’Algeria allo Yemen, dalla Siria alla Giordania, dove è stato mandato a casa il Primo Ministro. La stampa internazionale ha paragonato questi movimenti a quelli che hanno portato alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Sicuramente in Medio Oriente si stanno abbattendo i muri della rassegnazione, della paura e di un prolungato silenzio imposto da dittature mai apertamente denunciate.
Vale la pena ricordare qui il discorso di Barak Obama all’Università   del Cairo del giugno 2009, davanti a 2000 studenti. Pronunciಠparole che trovano oggi tutta la loro attualità  : parlಠdi dialogo nuovo con il mondo musulmano, parlಠdi democrazia e parlಠdi diritti. Parole che oggi chiamano l’Occidente a confrontarsi con un’inaspettata realtà  , rappresentata esclusivamente da chi non voleva più scendere a compromessi con quelle dittature.

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