Meno male che l’Europa c’è

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Da sempre le manovre finanziarie sono difficili, lo sono di più in una stagione di casse pubbliche non solo vuote ma anche indebitate fino al collo, come in Italia. Peggio ancora in questo momento stanno la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, ma anche negli altri Paesi non si scherza e così tutta l’Europa si vede costretta a tirare la cinghia e non per qualche giorno soltanto.
Qualcuno dei nostri politici si è consolato con il proverbio: «Mal comune, mezzo gaudio» e ci ha raccontato che, sì la disoccupazione da noi è alta, ma altrove è peggio (salvo che altrove le statistiche non sempre taroccano i dati, contando i cassintegrati tra chi è al lavoro), che il nostro deficit sul Prodotto Interno Lordo (PIL) è fuori misura ma meno che in altri Paesi. Solo del debito pubblico il nostro governo non ama parlare: è praticamente il più alto d’Europa, viaggia attorno al 116% sul PIL (vent’anni fa ci eravamo impegnati a farlo scendere verso il 60%) e continua a crescere.
E non sono solo percentuali astratte degli economisti: questo debito è costato l’anno scorso all’Italia la bellezza di 77 miliardi di euro, l’equivalente di oltre tre finanziarie «sangue e lacrime», come quella appena presentata da Tremonti e sulla quale il ministro dell’Economia ha avuto il coraggio di metterci la faccia, senza cercare di attribuirne ad altri – al Quirinale o ai «gerarchi» della corte del presidente del Consiglio – la responsabilità  .
Tutti perಠla responsabilità   hanno tentato di farla ricadere sull’Europa: quante volte abbiamo sentito il vecchio ritornello: «àˆ l’Europa che ce lo chiede», dimenticando che a quelle decisioni dell’Europa concorre, come è giusto, anche il nostro governo?
E qui, su quello che l’Europa fa o non fa, è bene fare chiarezza anche perchà© in quello che resta della nostra fragile democrazia è doveroso individuare le responsabilità   per chiederne conto a chi è chiamato ad esercitarle per noi.
L’Europa ha ricevuto dai Trattati il compito di governare, con la sua Banca Centrale (BCE), la stabilità   dell’euro nei sedici Paesi che hanno adottato la moneta unica, ma ben poco puಠfare e fa per attivare la leva della crescita. Questo potrebbe avvenire se all’UE fosse affidato il governo dell’economia con tanto di leva fiscale e di politica del bilancio.
Nulla di tutto questo hanno fatto i Trattati che, di riforma in riforma, hanno mancato questo passaggio difficile in un’Europa di nazioni che si pretendono sovrane e che dovrebbero rivedere a fondo il loro assetto democratico e quello dell’UE per dotarsi di un governo comune dell’economia. Si assiste così a una serie di interventi di emergenza, spesso non coordinati tra di loro, tali da non rassicurare i mercati e, soprattutto, inadeguati a rilanciare la crescita.
àˆ la cronaca di questi giorni: si fanno attendere la creazione di un Fondo di stabilizzazione dell’euro invocato da più parti, USA in testa, una nuova più severa regolamentazione dei mercati finanziari e un inquadramento di quelle agenzie di rating che con le loro votazioni sull’affidabilità   economica dei Paesi hanno dato una mano non indifferente alla speculazione. Al G20 di fine giugno, l’UE rischia di presentarsi inadempiente rispetto agli impegni presi.
Nell’attesa di misure condivise, ognuno se ne va per conto suo – e la Germania lo ha fatto ripetutamente – agitando la bandiera della riduzione rapida dei deficit pubblici, messa in conto alla crudele Europa.
Intanto perಠse, tutti insieme, i Paesi dell’euro si precipitano a ridurre il deficit a ritmo accelerato non restano attivi volani di crescita e il rischio – segnalato da molti economisti e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL-ILO) – è che si ripiombi in un’altra fase recessiva con pesanti ricadute sull’occupazione.
Il rischio non sembra troppo preso in conto dai politici, intenzionati ad approfittare dell’occasione offerta dalla spinta europea al risanamento dei conti pubblici per riparare almeno in parte agli sprechi del passato, senza perdere il consenso ottenuto da anni con politiche lassiste. E così finisce che a pagare il conto siano i sistemi di protezione sociale e i servizi pubblici, cioè sempre i soliti noti.
Altre sarebbero le strade da battere, insieme con un progressivo risanamento dei conti: per cominciare, quella di un effettivo e vincolante coordinamento delle politiche di investimento, mirando alla promozione di nuovi settori come quelli dell’energia verde per promuovere nuova occupazione, contrastare il riscaldamento climatico e affermarsi leader nel mondo, almeno su questo fronte.
Più radicalmente l’Europa deve decidere se cogliere l’occasione della crisi per procedere verso una maggiore integrazione dei mercati e delle sue politiche – come la spingono a fare economisti autorevoli come Monti e Padoa-Schioppa – o puntare, ancora più coraggiosamente, verso la realizzazione di un bilancio unico europeo, come recentemente suggerito da Jacques Attali.
Ma tutto questo non puಠfarsi con gli attuali Trattati, certo non con quello di Lisbona, appena entrato in vigore e già   vecchio. Ormai sta diventando chiaro a tutti: o l’Europa cambia passo e riprende la via di uno sviluppo federale oppure la straordinaria avventura dell’integrazione europea è destinata a spegnersi.

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