Le migrazioni cambieranno l’Europa

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Stanno per concludersi le rituali vacanze estive, un periodo di riposo e di svaghi che sembra mettere in sospeso o fra parentesi il quotidiano incalzare dell’attualità politica nel nostro Paese, in Europa e nel mondo. Eppure, in questo periodo di normale e generale distrazione, l’attualità non si è concessa pause e ha continuato a tessere le sue inquietanti tele. Per limitarci ai confini immediati dell’Europa, mai come in quest’ultima estate il numero di migranti che hanno attraversato e continuano ad attraversare il Mediterraneo per giungere sulle coste europee è stato così importante. Le tragedie, il dolore e le paure scorrevano ininterrottamente sui nostri schermi televisivi, le telecamere ormai puntate non solo su Lampedusa, ma anche sulle isole greche, sulla Serbia, sulla Macedonia, sull’Ungheria e sulla Bulgaria. Migliaia e migliaia di profughi che cercano di raggiungere il Nord Europa e che rendono ormai superate le proposte della Commissione europea di ridistribuire fra i Paesi dell’Unione i 40.000 profughi previsti nello scorso aprile. Un’emergenza ormai che non ammette più il rinvio di una politica comune, coerente, solidale e lungimirante dell’Europa, anche se fra i suoi Paesi membri c’è chi non esita a costruire muri e a mettere filo spinato, come l’Ungheria, e chi al contrario, come la Germania, sospende di propria iniziativa l’accordo di Dublino per poter accogliere direttamente i profughi siriani. Ed è proprio in questo contesto di estrema e prolungata emergenza che perfino l’ONU ha richiamato l’Europa a dar prova di “umanità e rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo”.

Tanti profughi perché alcuni Paesi a sud del Mediterraneo sono letteralmente in fiamme o sotto la costante minaccia del terrorismo: Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan, Etiopia, Libia sono alcuni dei Paesi da cui fuggono e dove l’espandersi del sedicente Stato islamico semina un feroce terrorismo che ormai non risparmia più nulla, nemmeno la storia e il suo patrimonio culturale. Un terrorismo che ha allungato inoltre i suoi tentacoli fino in Europa, seminando qua e là serie minacce di attacchi, a volte sventati solo per caso o per fortuna ma sempre comunque volti a sottolineare la crescente fragilità della sicurezza europea.

Un altro fatto avvenuto durante questa caldissima estate e passato forse senza la dovuta attenzione per le conseguenze che avrà sul lungo periodo, è la decisione della Turchia, Paese membro della NATO, di entrare, dopo mesi di ambigui atteggiamenti politici, su questa incandescente scena mediorientale per combattere “i terrorismi”. Un plurale che indica, da una parte il sostegno alla coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, per combattere lo Stato islamico, Daesh, e dall’altra, la decisione di combattere i curdi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), con i quali era stato avviato nel 2013 un fragile dialogo di pace dopo 30 anni di guerra. Se da una parte il primo obiettivo è da prendere con prudente credibilità, la seconda decisione ne svela, dall’altra, tutta l’incoerenza politica, visto che i curdi stessi si sono distinti nella lotta contro Daesh, meritando in tal modo una sorta di incoraggiante riconoscimento internazionale. Affiora così la pericolosa prospettiva dell’apertura di un altro fronte di guerra proprio in quei territori, riportando d’attualità il tema di uno Stato curdo indipendente. I curdi, divisi fra Turchia, Iraq, Siria e Iran rappresentano la minoranza etnica più numerosa al mondo senza uno Stato. La prospettiva di un Kurdistan indipendente alimenta infatti nuove tensioni e timori nella regione, in particolare nel Presidente Erdogan, reduce da una sconfitta elettorale nello scorso giugno dovuta in parte al successo ottenuto dal nuovo Partito democratico dei popoli (HDP) pro curdo. Una sconfitta che non gli ha permesso di ottenere quella maggioranza necessaria per modificare la costituzione e trasformare la Turchia da Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale. Sospeso quindi il fragile processo di pace con attacchi e scontri quotidiani fra curdi e turchi, tutte vittime di un conflitto che si è riacceso all’interno di un’altra guerra che soffia ormai su tutto il Medio Oriente. In prospettiva, nuove elezioni in Turchia previste per l’inizio di novembre e una situazione a dir poco carica di incognite politiche per il futuro di tutta la regione.

Ma l’estate ha messo in sordina un’altra guerra che si combatte ormai da vari mesi sui confini orientali dell’Europa, in Ucraina. L’intensità del conflitto e degli scontri fra i separatisti dell’Est del Paese e l’esercito ucraino, ha raggiunto livelli molti alti in questi ultimi giorni di agosto, rendendo sempre più incerto il rispetto degli accordi di Minsk e la prospettiva di un ritorno ad una pace negoziata e condivisa.

Immigrazione, Medio Oriente e Ucraina: tre temi che si imporranno con priorità sul tavolo dei responsabili politici europei. Al centro, un’Europa chiamata a prendere decisioni urgenti e coraggiose: la posta in gioco è infatti molto alta perché si tratta di garantire la pace, di dar prova di accoglienza, di solidarietà e di rispetto dei diritti fondamentali, e, soprattutto di porre un solido argine contro l’avanzare di populismi e razzismi che mettono in serio pericolo la tenuta delle nostre democrazie. E con loro l’insieme della nostra Unione.

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