Era una promessa fatta in campagna elettorale da Joe Biden, una promessa mantenuta nella forma. Alla fine di marzo infatti si è svolto il secondo Vertice delle democrazie a Washington, un’iniziativa volta, in primo luogo e se possibile, a cancellare le immagini della fine della presidenza Trump e di una democrazia vacillante. Non solo, ma anche un’iniziativa destinata a riportare, nelle mani degli Stati Uniti, la fiaccola mondiale della democrazia e di riaffermare l’importanza dei valori occidentali nel quadro della competizione globale.
Si è trattato quindi di un evento di respiro mondiale, con partecipanti valutati e scelti dagli Stati Uniti con criteri che probabilmente rispondevano prioritariamente ad una visione del mondo secondo Washington e ai suoi interessi geopolitici, piuttosto che a valutazioni di rispetto delle regole democratiche e dello stato di diritto.
Va innanzitutto sottolineato che questo secondo vertice si è svolto dopo un anno di guerra della Russia contro l‘Ucraina, in un momento in cui i rapporti internazionali si stanno sensibilmente modificando e dove il rapporto fra Cina e Stati Uniti si fa sempre più teso.
In questo contesto è importante guardare ai 120 Paesi invitati e a quelli esclusi da un tale esercizio, portando la riflessione sullo stato della democrazia nel mondo. In primo luogo, secondo “l’Indicatore di democrazia”, pubblicato ogni anno dal settimanale Economist, nel 2022 il 46% della popolazione mondiale viveva in Paesi democratici, ma solo l’8 % viveva in Paesi considerati “democrazie complete”. Di queste ultime, solo 22 Paesi nel mondo ne facevano parte. Dati che, sottolinea l’indicatore del 2022, sono in costante calo da un po’ di tempo a questa parte, tanto da parlare di “recessione democratica” nel mondo.
A segnare, tuttavia, la percezione della democrazia nel mondo di Washington, bisogna sottolineare che il Vertice era copresieduto, oltre che dagli Stati Uniti, anche dai Paesi Bassi, dal Costa Rica, dallo Zambia e dalla Corea del Sud. Se Costa Rica e Corea del Sud sono venute a far parte delle “democrazie complete”, lascia invece a desiderare lo statuto dello Zambia, considerato un regime “ibrido”, cioè a poca distanza dai regimi autoritari, senza parlare degli stessi Stati Uniti, considerati “democrazia imperfetta”, per la fragilità democratica dimostrata alle ultime elezioni presidenziali e dall’assalto al Campidoglio.
In secondo luogo, è interessante sottolineare la presenza o l’assenza dei Paesi invitati: presenti ad esempio Israele, fedele alleato in Medio Oriente, la cui democrazia è, ora più che mai, sotto tensione per una pericolosa riforma giudiziaria; altro invitato dal dubbio profilo democratico è il Messico, il cui Presidente sta cercando di intralciare il percorso di elezioni libere ed eque. Senza dimenticare Taiwan, il cui peso simbolico e geopolitico in questo preciso momento non sfugge a nessuno e anche se l’amministrazione americana ha precisato che si trattava di un invito “nel pieno rispetto della nostra one China Policy”.
Fra gli esclusi eccellenti al Summit, va soprattutto segnalata l’assenza della Turchia e dell’Ungheria, unici due Paesi della NATO e alleati degli Stati Uniti. Nel mirino americano, la loro politica di neutralità nei confronti della Russia.
Se da una parte si può salutare un’iniziativa di dialogo e di sostegno alla democrazia nel mondo, dall’altra il Summit interroga sempre più sul futuro delle relazioni internazionali e sulla reale capacità di tenere coerentemente insieme e di difendere i valori che sono alla base della pace e dello stato di diritto.