Le rivolte non ancora sopite a Piazza Taksim e nel resto della Turchia, hanno riportato l’attenzione anche sui rapporti del Paese con l’Unione Europea. I toni si sono accesi in questi ultimi giorni con dichiarazioni diplomaticamente inopportune da parte della Turchia a fronte di legittime dichiarazioni di inquietudine da parte del Parlamento Europeo e di altri responsabili politici europei sulla violenza delle risposte date alle manifestazioni.
Ma, premessa la fondatezza delle inquietudini europee al riguardo che certamente non fanno gioco all’attuale Primo Ministro Erdogan, vale la pena soffermarsi e fare il punto sul lungo e tortuoso cammino seguito finora dalle relazioni della Turchia con l’Unione Europea. Le date testimoniano infatti di questo percorso: nel 1963 la firma di un Accordo di Associazione, nel 1987 la presentazione della candidatura di adesione, nel 1995 l’Accordo di Unione doganale, nel 1999 il riconoscimento dello statuto di Paese candidato all’adesione, nel 2005 l’apertura dei negoziati. Ad oggi, dopo tanti anni di relazioni, è stato concluso solo un capitolo sui 35 previsti dal negoziato di adesione e da due anni a questa parte le discussioni sono praticamente ad un punto morto. Varie le ragioni di questo stallo, che se da una parte hanno generato un sentimento di stanchezza o di crescente disinteresse da parte turca, hanno, d’altra parte, messo in evidenza le difficoltà dell’Unione Europea a pronunciarsi chiaramente e senza troppe ambiguità sull’adesione di un Paese che fa ancora paura per i suoi 80 milioni di abitanti in maggioranza musulmani e per la sua posizione geografica che si estende come un ponte verso l’Asia. Aspetti questi che toccano corde sensibili come le frontiere dell’Europa o le sue identità culturali e religiose.
Ma, dopo tanti anni di pericolose tergiversazioni, la situazione è cambiata, sia per quanto riguarda l’Unione Europea, sia per quanto riguarda la Turchia. Le sfide in campo, da un punto di vista politico, economico, geopolitico e geostrategico a livello regionale e mondiale non hanno più nulla a che vedere nemmeno con il recente passato. La Turchia si è sviluppata economicamente e le recenti manifestazioni indicano che un processo democratico è in corso insieme ad una voglia di Europa da parte dei giovani; le Primavere arabe stanno ridisegnando un nuovo Medio oriente in cui la Turchia può avere un ruolo strategico di primaria importanza e di connessione con l’Europa stessa; la Turchia rimane più che mai crocevia di passaggi energetici e commerciali, vitali per l’Europa, provenienti dall’Asia e dalla Russia. In questo contesto in grande movimento il tergiversare dell’Europa e il confinare le relazioni con la Turchia nell’ambito stretto di negoziati per un’improbabile adesione nei prossimi dieci anni hanno tutto il sapore di strumenti anacronistici e privi di una visione strategica a medio e lungo termine non solo nella regione e ai suoi immediati confini, ma anche su tutta la scena internazionale.
È necessario che l’Europa esca da questa ambiguità e, indipendentemente dall’obiettivo di una futura e incerta adesione, costruisca già rapporti di partenariato rafforzato con la Turchia, metta fra le priorità i capitoli di dialogo sulla democrazia e lo stato di diritto, identifichi progetti strategici comuni in una Politica di Vicinato più incisiva, coerente e all’altezza delle sfide democratiche, economiche, sociali e culturali che coinvolgono tutto il Mediterraneo, rafforzi la cooperazione economica e i punti di convergenza in politica estera. È in gioco una partita importante per il futuro dell’Europa, per la sua credibilità e la sua presenza in un mondo che cambia rapidamente.
Purtroppo dall’Europa non arrivano segnali in questo senso. La recente decisione sostenuta in particolare dalla Germania di posporre di quattro mesi, e cioè a dopo le elezioni tedesche, l’apertura di un nuovo capitolo del negoziato di adesione non getterà certo le basi per un nuovo, rinnovato e necessario dialogo con la Turchia.