La spada di Damocle di Bruxelles sui conti italiani

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Puntuale come le tasse, è tornato in questi giorni il tormentone dei richiami di Bruxelles sui precari conti pubblici italiani. Non proprio una sorpresa, anzi una vicenda antica che ci portiamo dietro da vent’anni, da quando l’Italia ha apposto la sua firma nel 1997 in calce a quel “Patto di stabilità” che da allora ci segue passo a passo.

Per essere precisi il nome esatto di quell’Accordo recitava: “Patto di stabilità e crescita”, ma l’ultima e importante parola si è persa per strada e ormai da anni si parla solo di stabilità. Forse anche per questo Romano Prodi, diventato Presidente della Commissione europea, lo chiamò “Patto di stupidità”, tanta era la sua rigidità e la sua inadeguatezza in caso di crisi. Come si sarebbe poi verificato in particolare nella crisi esplosa nel 2008, dalla quale l’Italia stenta a uscire con il suo debole coefficiente di crescita, che aggrava l’instabilità dei conti.

Riepiloghiamo i vincoli di quel Patto: il contenimento del deficit annuale inferiore al 3% del prodotto interno lordo (PIL) e la progressiva riduzione del debito pubblico verso la soglia del 60% del PIL. Il primo vincolo è stato ulteriormente reso più severo nel 2012 con l’impegno, introdotto nella nostra Costituzione, di realizzare il pareggio del bilancio pubblico annuale. Si tratta di vincoli all’origine della richiesta di Bruxelles per una manovra correttiva della legge di stabilità italiana, adottata in gran fretta a fine anno scorso dal Parlamento e che adesso torna sotto i riflettori con l’esigenza di trovare una sua correzione per un valore di 3,4 miliardi di euro per ridurne lo sforamento rispetto ai parametri UE.

Un’impresa non facile nella fragile congiuntura politica italiana, con un governo appeso a un filo e il rischio di elezioni anticipate che rendono difficili manovre di tagli alla spesa pubblica o l’introduzione di nuove tasse. Un’impresa da affrontare per restare credibili in Europa e affidabili per i mercati, ma anche per risanare progressivamente i conti pubblici italiani, non solo sul versante del deficit dove qualche progresso c’è stato, ma anche e soprattutto su quello del debito pubblico, dove di progressi non se ne vedono, anzi.

Ed è proprio su questo baratro di cui non si vede il fondo che Bruxelles ha puntato i riflettori la settimana scorsa.

Quella del debito pubblico italiano è una storia vecchia, una zavorra che ci portiamo dietro da tempo e che invece di ridursi aumenta. Dai tempi della moneta unica non ha fatto che salire, nonostante l’impegno preso dal governo italiano a riportarlo progressivamente alla soglia del 60% del Prodotto interno lordo (PIL). Siamo andati invece in direzione opposta fino a raddoppiarlo largamente rispetto a quella soglia: oggi il debito pubblico italiano è sopra il 130% del PIL e secondo Bruxelles è destinato a salire a fine anno al 133, 3%, rischiando di produrre una crisi sistemica nell’eurozona, senza paragoni con i rischi che potrebbe far correre il debito greco, l’unico pubblico superiore a quello italiano.

I giorni scorsi Bruxelles, dopo aver sospeso il giudizio nel periodo turbolento del referendum costituzionale, è tornato alla carica e chiede che entro aprile venga adottata quella manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro da tempo annunciata.

Si dà però il caso che la richiesta giunga a destinazione in un momento forse anche più problematico per il governo italiano, stretto tra la pressione di Bruxelles e la precarietà del quadro politico nazionale sul quale pesano le incertezze generate dal più importante partito di maggioranza, con il rischio di elezioni anticipate alla cui vigilia casca male una manovra correttiva fatta di tagli e di nuove tasse. Senza contare un’altra tenaglia elettorale europea, con due difficili appuntamenti elettorali: in Olanda a metà marzo e tra aprile e maggio in Francia.

Sempre più difficile riuscire a navigare tra Scilla e Cariddi.

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