La politica e i numeri

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Da sempre la politica prova qualche difficoltà a misurarsi con i numeri, preferendo aggrapparsi alle parole.

Ne abbiamo avuto ancora una prova all’indomani dell’ultima tornata elettorale nelle parole pronunciate dai partiti a proposito dei numeri usciti dalle urne. Tutti o quasi a difendere alla meglio i propri risultati, dimenticando il numero più clamoroso di tutti: quello delle astensioni che, di elezione in elezione, cresce senza sosta con un italiano su due che al secondo turno delle amministrative non è andato a votare.

Ma altri numeri ancora dovrebbero interpellare i nostri politici.

Per l’Italia l’occasione l’ha offerta il Rapporto annuale dell’ISTAT, presentato la settimana scorsa. Ne risulta una fotografia non proprio incoraggiante del Belpaese. Dal 1991 a oggi la popolazione è cresciuta di 2,7 milioni di persone in più, quasi tutte straniere. E’ cresciuta la speranza di vita, per le donne a 84 anni, per gli uomini a 79, ma resta basso il tasso di natalità, che non precipita grazie alle donne straniere. La struttura della famiglia italiana si è modificata: sono aumentate le persone sole, le coppie senza figli e quelle monogenitore; sono il 42% i giovani tra i 25 e i 34 anni che vivono in famiglia. Il tasso di occupazione è aumentato di poco e solo grazie alla diffusione del part time femminile. Non lavorano né studiano circa 2,1 milioni di giovani; oltre un giovane su tre è disoccupato. Qualche notizia migliore dalle donne nel campo della formazione: raggiunge il diploma il 78% delle ragazze, ma solo il 69% dei ragazzi. Da non trascurare una percentuale significativa: abbandonano le scuole superiori il 30% dei figli degli operai contro il 6,7% dei figli dei dirigenti e solo il 20,3% dei primi arriva all’università contro il 61,9% dei figli delle classi agiate.

Non stupiscono le dimensioni e il destino non proprio felice dei lavoratori atipici: tra i nati degli anni ’70 erano il 31% ma già erano diventati il 45% tra i nati degli anni ’80. Il passaggio a un’occupazione stabile “è più facile per gli appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro atipico, dopo dieci anni, nel 29,7% dei casi è ancora precario e nell’11,6% ha perso il lavoro”.

Molti altri ancora i numeri che i nostri politici dovrebbero avere davanti agli occhi giorno e notte.

Ai numeri dell’ISTAT si sono aggiunti, negli stessi giorni, quelli dell’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OCSE) che annuncia per l’Italia ancora due anni di recessione, particolarmente pesante nel 2012, il conseguente aumento della disoccupazione che si sta avvicinando alla soglia del 10% e il rischio di una nuova manovra finanziaria.

Dall’Ufficio statistico dell’UE (EUROSTAT) mandano a dire che la pressione fiscale sugli stipendi è la più alta d’Europa: un operaio con uno stipendio mensile di 1.226 euro netti ne costa all’azienda 2.241; un impiegato con una busta paga netta di 1.621 euro ne costa 3.050. Complessivamente la pressione fiscale ha raggiunto il 42,3%, ma nel 2012 salirà al 45%.

Completa il quadro il Rapporto 2012 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL): la crisi ha falciato nel mondo 120 milioni di posti lavoro, penalizzando in particolare nelle economie sviluppate i giovani: 75 milioni di loro sono senza lavoro nel mondo.

Con questi numeri non stupisce che aumenti il disagio sociale in Italia e nel mondo, che non si fermino i flussi dei migranti, che cresca l’instabilità politica e corra pericolo la democrazia.

Stupisce invece che un’intera classe dirigente, italiana ed europea, continui a danzare sull’orlo del baratro, parlando troppo e d’altro e trascurando i numeri che ha davanti agli occhi.

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