È ormai trascorso un mese da quello sciagurato attacco di Hamas a Israele e, sul terreno, la guerra con i suoi indicibili orrori continua ad intensificarsi. La risposta di Israele è effettivamente all’altezza delle parole pronunciate dal Primo Ministro Netanyahu all’indomani dell’attacco: annientare definitivamente Hamas nascosto nelle viscere di Gaza, a costo di distruggere la Striscia e pagare il prezzo altissimo delle vittime civili. Non solo, a costo anche di sacrificare i più di duecento ostaggi israeliani tuttora nelle mani di Hamas.
Intorno a questa guerra si sta muovendo una diplomazia frenetica, divisa fra chi dichiara, Stati Uniti in particolare, il sostegno forte e incondizionato a Israele a difendersi e chi invece, a livelli diversi e in particolare fra i Paesi arabi, dove il sostegno della popolazione alla causa palestinese è più elevato, ad avere posizioni più prudenti, meno marcate, non sempre chiare nel condannare Hamas o addirittura a sostegno di quest’ultimo, come ad esempio la Turchia.
Particolarmente attiva con l’intensificarsi della guerra è la diplomazia degli Stati Uniti, dove non solo il Segretario di Stato Blinken è tornato per la seconda volta nella regione, ma dove è volato anche il Direttore della CIA, William Burns, per tentare di evitare un allargamento del conflitto, pronto a straripare al minimo incidente in un contesto regionale attraversato da tante fratture.
Una diplomazia che si muove entro limiti molto stretti, la quale, se da una parte insiste sulla garanzia al diritto di Israele alla difesa, dall’altra cerca di alleviare il peso della risposta israeliana sulle popolazioni civili e sull’emergenza umanitaria che sta provocando a Gaza. Una quadratura del cerchio che si gioca anche sulla semantica, sulla differenza fra tregua umanitaria, limitata nel tempo e volta esclusivamente al passaggio dell’aiuto umanitario e la richiesta di un “cessate il fuoco”, ritenuto troppo rischioso da parte israeliana in quanto potrebbe permettere ad Hamas di riorganizzarsi e di riprendere forze. Differenze semantiche, rifiutate e rispedite immediatamente al mittente da Israele, salvo nel caso in cui gli ostaggi catturati da Hamas venissero rilasciati.
Se, da una parte, la diplomazia degli Stati Uniti ha rifatto il giro dei Paesi della regione, passando questa volta anche dall’Iraq, dalla Giordania e dalla Turchia, Paese quest’ultimo che ha accolto Blinken con evidente freddezza, dall’altra si è messa in moto anche la forza militare, come dispositivo di deterrenza, dispiegando due navi da guerra e un sottomarino a protezione di Israele. Un chiaro segnale all’Iran e ai suoi alleati nella regione, Hezbollah in particolare, sulle conseguenze di un ampliamento del conflitto. Inoltre, non va dimenticato che, all’orizzonte degli Stati Uniti ci sono, fra un anno, le elezioni presidenziali dove i passi verso la Casa Bianca potrebbero essere più difficili del previsto per il Partito democratico di Biden.
In questo contesto anche l’Unione Europea cerca di trovare una sua posizione nei confronti del conflitto israelo-palestinese, posizione che, malgrado le divisioni interne, cerca di rimanere nel solco tracciato dalla diplomazia degli Stati Uniti. Ad una recente riunione degli ambasciatori UE a Bruxelles, la diplomazia europea, per voce dell’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell ha insistito sull’importanza di “una tregua affinché la violenza si arresti e che il diritto internazionale umanitario venga rispettato”.
Siamo quindi molto lontani da una possibile prospettiva di pace nel conflitto e soprattutto molto lontani dall’immaginare quale sarà il futuro politico di quella Terra dopo quest’ultima devastante guerra.
Per il momento sono solo le armi e gli aspetti drammatici della catastrofe umanitaria a parlare. Al riguardo sarà importante capire quali saranno i risultati della Conferenza umanitaria che la Francia sta organizzando per il prossimo 9 novembre.