Purtroppo a ricordare che la guerra in Siria continua violenta ormai da cinque anni a questa parte sono soprattutto le immagini della sofferenza delle popolazioni, come quella del piccolo Omran, scampato ai bombardamenti su Aleppo o quelle di città ormai distrutte, con popolazioni allo stremo e in balia del buon volere di qualcuno in grado di negoziare una tregua o l’apertura di corridoi umanitari.
Di processo di pace si parla poco, in parte ormai per pudore, in parte per l’estrema complicazione che si è venuta a creare fra le parti coinvolte nel conflitto, anche se proprio venerdì 26 agosto si sono incontrati a Ginevra il Ministro degli Esteri russo Lavrov e il Segretario di Stato americano Kerry. Obiettivo dei due “grandi” è ridare vita ai colloqui di pace (avviati nel novembre 2015) e, come sottolineato da De Mistura, inviato speciale dell’ONU per la Siria, per rilanciare sostenibili iniziative politiche da parte delle Nazioni Unite.
Ma dietro tutto ciò sul terreno, e in particolare a partire dal 24 agosto scorso quando la Turchia ha deciso di entrare nel Nord della Siria con i suoi carri armati, il conflitto si è ulteriormente frammentato fra molteplici belligeranti, divisi fra loro, arroccati su fronti opposti e con un unico apparente obiettivo comune, quello della lotta al sedicente Stato islamico. Gli altri obiettivi, propri a ciascun Paese, rispondono spesso ad interessi divergenti fra le singole parti, cosa che rende estremamente complessa non solo la comprensione dell’insieme della situazione ma anche la definizione, almeno per il momento, di una possibile tregua o soluzione pacifica ai vari conflitti in corso.
Stati Uniti e Russia sono evidentemente gli attori di più visibile peso e importanza : gli Stati Uniti, a capo di una coalizione internazionale ma sempre meno convinti del loro ruolo in Medio Oriente, sostengono l’opposizione siriana che chiede l‘uscita di scena del Presidente Bachar al-Assad, mentre Mosca, entrata vistosamente sul teatro di guerra siriano soprattutto a partire dal settembre 2015, sostiene, insieme all’Iran e all’Hezbollah libanese, il regime di Damasco. Malgrado le loro opposte posizioni, i due Paesi, cercano di parlarsi e di trovare la strada di una possibile cooperazione.
Oggi, la battaglia più importante e cruciale per il futuro sviluppo della guerra o della tregua si concentra su Aleppo, seconda città del Paese, dove si affrontano, con i rispettivi sostegni militari internazionali, i ribelli e le forze del regime. La posta in gioco più alta è il peso da conquistare per eventuali e futuri negoziati per una soluzione del conflitto.
Nel frattempo, a nord-est di Aleppo, le forze curde siriane, sostenute dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, liberavano da Daesh anche la città di Manbidj, situata ad una manciata di kilometri dalla frontiera con la Turchia. Questa ulteriore vittoria, se da una parte estremamente significativa per fa arretrare Daesh, è stata, dall’altra, il segnale per la Turchia di abbandonare la sua ambigua politica in Medio Oriente ed entrare, per la prima volta dal 2011, nelle operazioni di guerra in Siria. Se l’obiettivo primo, dichiarato, è la lotta contro Daesh, il secondo, forse il più importante, è quello di fermare le attività militari dei curdi : in gioco, per la Turchia , la possibile e inaccettabile costituzione, a medio o lungo termine, di un territorio unito curdo lungo la sua frontiera con la Siria. Due obiettivi decisamente in contrasto fra loro.
L’entrata in scena della Turchia è quindi carica di risvolti : parte da un recente e difficile ravvicinamento con la Russia e indirettamente, da un punto di vista militare, anche con l’Iran; la diplomazia turca ha, contrariamente al passato, ammorbidito la sua posizione nei confronti di Bachar el Assad; la Turchia è l’unico Paese musulmano membro della NATO presente ora concretamente sullo scenario di guerra mediorientale e quindi inevitabile e indispensabile alleato degli Stati Uniti e della sua coalizione; sacrifica, d’accordo con gli Stati Uniti, che li hanno sempre sostenuti fino ad ora, l’appoggio ai curdi nella loro lotta contro Daesh, considerandoli, malgrado l’impegno militare dimostrato e i significativi risultati militari ottenuti, alla stessa stregua di terroristi.
In questo scenario sempre più complesso e dove si intrecciano più guerre, è l’ironia della diplomazia a formare o a sciogliere improbabili o impreviste alleanze. Purtroppo le guerre continuano, senza che questa instabile diplomazia dia qualche indicazione concreta per incominciare a sperare in un qualsiasi barlume di pace.