La scomparsa di Ariel Sharon, dopo otto anni di coma, spinge inevitabilmente a riportare lo sguardo su quel pezzo di Medio Oriente che, dopo tanti anni, ancora non riesce a trovare né pace né sicurezza. Uomo politico e militare di grande rilievo, Ariel Sharon ha certamente dedicato la sua vita ad Israele, al sogno di definire delle frontiere in grado di garantirne la sicurezza, ma è stato anche l’uomo che ha permesso il massacro di Sabra e Chatila, l’uomo che, con la provocatoria passeggiata alla spianata delle moschee, ha innescato la seconda Intifada e l’uomo del ritiro dei coloni da Gaza. Una personalità complessa, controversa e apparentemente contraddittoria che ha comunque segnato fino al 2006 la storia dei rapporti fra Israele, Palestina e l’intero Medio Oriente, in un susseguirsi di guerre, di intransigenze politiche e, nell’ultimo periodo, anche di legittimi interrogativi sulla sua visione di pace e di dialogo con i Palestinesi.
Il processo di pace israelo – palestinese, uno dei più lunghi ed irrisolti della storia contemporanea, non trova infatti quella continuità ed impegno politico necessari per giungere ad una soluzione. Sono trascorsi più di 20 anni dagli Accordi di Oslo, e i presunti negoziati sono stati caratterizzati più dalle battute d’arresto che da concreti passi avanti. Bloccati dal 2010 e ripresi ufficialmente nel luglio 2013, essi hanno come obiettivo finale quello di giungere alla costituzione di due Stati, attraverso un percorso di concessioni e compromessi che si basano essenzialmente sul ritorno ai confini del 1967, alla definizione dello statuto di Gerusalemme, al blocco degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania e allo smantellamento delle colonie esistenti. Un piano che non cambia molto da quelli già ripetutamente presentati nei precedenti tentativi di negoziato che, fra l’altro, ancora una volta non considera una componente importante dell’insieme di un tale processo, la posizione della Striscia di Gaza.
Poca la volontà evidente di procedere su questo percorso di pace, se si considera che sul punto essenziale dell’insediamento dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme, Israele è andato avanti con incurante determinazione, rendendo sempre più complicato e doloroso un necessario e futuro ritiro. Non solo, ma la ripresa dei negoziati avvengono in un contesto regionale estremamente diverso da quello in cui si erano arenati nel 2010, dove il tema della sicurezza di Israele, nella percezione dei suoi responsabili politici, ha ripreso forza e priorità al di là del problema palestinese.
Ma, per terminare su una nota di speranza e a conferma che a volte iniziative indipendenti da una Road Map possono contribuire attraverso altre vie alla pace, vale la pena segnalare la firma, il 9 dicembre scorso a Washington, di un accordo tripartito fra Israele, l’Autorità Palestinese e la Giordania per quanto riguarda il miglioramento della distribuzione delle risorse idriche nella regione. Un accordo reso possibile dopo più di dieci anni di negoziati e che porterà indubbi benefici anche ai Territori palestinesi, da tempo vittime di scarsità d’acqua. Con la conclusione dell’accordo, il Ministro palestinese ha dichiarato: “Abbiamo dimostrato che si può lavorare insieme nonostante i nostri problemi politici”. E allora, è ancora permesso sperare? Ce lo auguriamo.